MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA 2014

Intervista ad Irina Novarese

di Rosa Manauzzi

Irina Novarese nasce nel 1972 a Torino, città dove vive fino al 2000 per poi trasferirsi a Berlino. Qui consegue un Master in “Art in Context” e continua la sua indagine artistica e personale. Espone in tutto il mondo, sia in collettive sia in mostre personali. I suoi lavori, al di fuori di cornici e spazi standard, si estendono in mappature identitarie lungo percorsi mentali e topografici di realtà urbane tutte da interpretare, con vie tutt’altro che agili ed omogenee, così come in fondo è la vita. Perdersi per conoscersi sembrano essere due dei principali aspetti della sua ricerca artistica. La pluridisciplinarità e la varietà dei mezzi espressivi e materici è la ricca modalità con cui si esprime, sempre in fase di sperimentazione ed evoluzione. La mappa è la suggestione che la contraddistingue.

Nel 1996 ti sei diplomata in pittura a Torino, presso l’Accademia Albertina di Belle Arti, e poi hai deciso di prendere un Master a Berlino. Perché questo salto in Germania?

Il salto a Berlino, più che in Germania, è avvenuto indipendentemente dalla prosecuzione dei miei studi. È stata una scelta determinata dallo spazio urbano della città, che sentivo come sento tutt’oggi familiare, e sicuramente dalla facilità che ho avuto allora a trovare uno spazio di lavoro e di vita.
La decisione di fare domanda al Master Art in Context è nata successivamente e posso dire che questo corso di studi ha definito il momento in cui ho deciso di fermarmi e proseguire il mio percorso qui. Mi ha aiutato a stabilizzarmi professionalmente e a trovare un gruppo importante di amici-colleghi.

Qual è oggi la tua città, Torino o Berlino?

Non credo di poter rispondere indicando un luogo od un altro. Penso che ci siano luoghi o città, nel mio caso, che ci sono consoni e dove per questo ci sentiamo “a casa”. Magari ci abbiamo vissuto, lavorato o ci siamo nati. Credo la mia lista di città sia, o voglia essere, più estesa.

Sei passata dai primi anni di produzione artistica in cui privilegiavi volti ben definiti, fotografici, quasi punti fermi, a linee continuamente spezzate che cambiano direzione. E’ venuto meno qualcosa o si è aggiunto?

I lavori sull’identità e la sua costruzione hanno come risultato immagini fotografiche di persone. Ma ciò che costruisce la nostra identità, credo, può anche essere descritto come un percorso di linee che cambiano direzione, a seconda di ciò o chi si trovano ad incontrare e all’interazione che ne nasce. La mia idea di identità è riferibile al concetto di sistema ed è per questo che i lavori legati alla carta geografica sono per me semplicemente un proseguire nella ricerca e l’osservazione di sistemi. Che siano questi gli individui stessi o un loro prodotto.

Il percorso metropolitano è irto di ostacoli e linee spezzate. E’ una caratteristica a cui dobbiamo adeguarci o dobbiamo tornare ad esigere una mappatura sostenibile e in armonia con la natura anche nel tessuto cittadino più urbanizzato?

Non ci siamo già adeguati a linee spezzate ed ostacoli? Credo che ci sia una nuova forma molto organica di interagire con lo spazio metropolitano, grazie a persone con progetti legati alle nuove risorse e alla reintegrazione dello spazio naturale in quello costruito. Forse sono un po’ pessimista ma penso che l’armonia con la natura sia molto lontana dalle città, semmai è la natura che si adegua, adatta e si infiltra intelligentemente negli interstizi lasciati liberi da noi. Purtroppo l’umanità ha una tendenza un po’ distruttiva e chi davvero potrebbe agire concretamente sul tessuto urbano è forse quello meno interessato ad un discorso di sostenibilità ed armonia.

Ti sei dedicata a città come Los Angeles. Cosa rappresenta per te indagare nel reticolato urbano di uno spazio così vasto e anche lontano dalle misure delle città italiane?

Il caso di Los Angeles si riferisce per quanto mi riguarda proprio all’idea che esistano luoghi che crediamo di conoscere già ed è per questo che vi possiamo agire con confidenza. Los Angeles è una città la cui misura immagino sia conosciuta dai più, proprio per la sua identità fittizia riportata continuamente alla nostra percezione dall’industria del cinema e dalla letteratura. Quello che più mi interessava di questo spazio urbano era proprio la possibilità di ritrovarsi (trovarsi nuovamente) in un luogo senza mai esservi stati precedentemente. In particolar modo ciò che mi ha molto affascinato ed incuriosito nella mia ricerca è la storia del suo sviluppo infrastrutturale che la riporta costantemente ad una sorta di “fiction esistente”.

.

Nelle tue mappe di paesaggi mentali è l’identità singola che si perde o quella di un’intera popolazione cittadina?

Sicuramente si tratta di una visione personale e quindi singolare, ma, più che perdersi, l’identità di cui racconto si muove ed osserva.

Una tua mostra del 2011 è stata intitolata “Ricordami di darti le indicazioni per potersi perdere”. E’ un percorso necessario per potersi ritrovare? Che tipo di opere hai scelto per un titolo così?

Sicuramente tutti i lavori presentati durante quella mostra erano, come puntualmente osservi, un percorso necessario per potersi ritrovare. Tutte le installazioni, prodotte durante e in seguito alla mia residenza a Los Angeles, hanno definito uno sviluppo verso una nuova direzione nella mia produzione artistica, riavvicinandomi a temi su cui lavoravo molto tempo fa (architettura e città) e che in realtà non avevo mai lasciato andare.

In Spagna quest’anno hai dedicato una mostra al deserto. Com’è possibile passare dalla città iper urbanizzata alla distesa desertica? Entrambi sono privi di punti di riferimento umani?

Risponderei quasi dicendo che in fondo anche la città iper urbanizzata è una forma di deserto. Tutto sommato le città di notte, quando nessuno cammina per le strade, sono affascinanti esattamente come uno spazio naturale in cui si può osservare l’orizzonte senza incrociare lo sguardo di nessuno. Forse è perché ho come punto di riferimento il mio essere che riesco a muovermi da uno spazio all’altro apparentemente facilmente?

A. Utopia

Sempre quest’anno hai ricevuto la menzione speciale della critica del Premio internazionale Comel Vanna Migliorin per l’arte contemporanea, un premio che nel bando chiede agli artisti di usare l’alluminio. Per te si è trattato di una nuova scoperta materica o già avevi avuto modo di sperimentare l’alluminio?

L’alluminio è stata una scoperta abbastanza recente avvenuta proprio in relazione ad un’installazione realizzata nel 2011. Un materiale delicato ma tutt’altro che fragile ed estremamente ricco di possibilità con cui ho poi costruito diverse “cartografie” avvicinabili a quella presentata per il Premio Comel Vanna Migliorin.

Hai partecipato a collettive nei posti più diversi: dalla 2nd Ghetto Biennale di Port-au-Prince, ad Haiti, all’Art Platform di Los Angeles, e poi ancora Madrid, Caracas, Guangzhou (Cina), oltre a città europee e italiane. Qual è stato il progetto artistico che ti ha fatto scoprire nuovi aspetti dell’arte e ha trasformato in modo significativo il tuo modo di porti rispetto alla produzione artistica intesa come indagine sociale?

Sicuramente l’esperienza più intensa e portatrice di riflessioni è stata quella del progetto A BOOK ABOUT realizzato con il gruppo artistico A*BOUT a Port-au-Prince. Un lavoro realizzato insieme alla comunità di artisti e giovanissimi artisti haitiani Atis Rezistans che posso forse definire come la mia prima esperienza di lavoro collettivo e che mi ha sicuramente portato a rivedere la mia definizione di artista legata alla nostra cultura e anche ad una nuova forma nel processo lavorativo, trovandomi ad interagire con chi diversamente agisce nella propria creatività. (www.a-bout-group.com)

Lavori come curatrice del progetto interdisciplinare Hydromemories, di cosa si tratta?

Il progetto Hydromemories é una mostra nomade e flessibile che riunisce artisti internazionali che hanno dedicato parte della loro ricerca al tema dell’acqua. È un evento che si propone di sensibilizzare il pubblico su un argomento attuale e sostenere concretamente progetti di costruzione di cisterne per comunità con un difficile accesso all’acqua potabile, in collaborazione con ONG come il CISV in Italia e Ingegneria senza Frontiere in Germania.
Anche questo è un progetto realizzato in cooperazione con un gruppo di artisti con cui di volta in volta lavoriamo per portare la mostra in luoghi differenti, sfruttando anche le nostre differenti origini. Hydromemories é stato presentato a Berlino nel 2007 e 2009, a Caracas nel 2009 e a Torino nel 2012. (www.hydromemories.com)

gedankenposition

Hai uno strumento di creazione elettivo tra video, fotografia, scrittura, disegno, pittura, o ti servi allo stesso tempo di più mezzi?

La fotografia e la scrittura sono gli strumenti che utilizzo sempre come materia/archivio di base per poi spostarmi verso altri media per la realizzazione definitiva dei lavori, muovendomi a seconda dei periodi più in una o un’altra direzione, forse anche a seconda della necessità che ogni tanto percepisco di lavorare analogicamente.

Parliamo delle prossime mostre, Über Distanz und Dichte // About Distance and Density che terrai a Berlino in agosto e Landology in programma per novembre-dicembre a Caracas. Raccontaci questi due nuovi percorsi.

Entrambe le mostre hanno un percorso affine, infatti si concentrano/concentreranno sullo spazio urbano di entrambe le città ed alcuni elementi in particolare che si riferiscono ai mutamenti sociali, le urbanizzazioni spontanee, nel caso di Caracas in particolare, o iper controllate e soprattutto sulla speculazione edilizia, problema estremamente attuale in città come Berlino. E immagino che entrambe le mostre conserveranno un carattere cartografico proseguendo il percorso di quest’ultimo anno di lavoro. Ma è sempre difficile parlarne prima con certezza.

Condividi questa storia, scegli tu dove!