MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA 2018

Intervista a Laura De Lorenzo

di Rosa Mananuzzi

Architetto, designer, allestitrice di grandi mostre, musicista. La sua mostra di maggior rilevanza “Pittura e Materia” (2005), si è tenuta presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna” di Roma, a cura di Maurizio Calvesi e del Vice-Soprintendente Mario Ursino. Utilizza materiali inusuali, spesso di riciclo. La formazione di architetto ne ha guidato le capacità compositive e la lunga carriera nel campo del disegno industriale, fornendo gli strumenti tecnici per la lavorazione. L’alluminio, in particolare, ampiamente utilizzato nei suoi prodotti di design, anche con tecnologie avanzate, quali le tensostrutture, è un materiale che tuttora la affascina, per le sue qualità artistico-espressive.

Ricordi quando hai deciso la prima volta di dedicarti all’arte? Qual è stata la scintilla? E quali azioni hai intrapreso per realizzare il tuo sogno?

Credo di essere nata con una certa tendenza alla creatività, che si esprimeva già nei giochi della pima infanzia. Oltre ad esibirmi nei consueti “scarabocchi”, avevo un rapporto particolare con i giocattoli e altre cose di cui venivo in possesso e che amavo collezionare. Fu mia madre, appassionata di arte moderna, a condurmi nei musei e fu allora che cominciai a dipingere più seriamente, prendendo a modelli i grandi del ‘900 e reinterpretandone le tematiche. Spendevo tutte le mie “paghette” dal corniciaio e poi donavo a mamma le mie piccole opere. Finché è vissuta ho dedicato a lei tutte le mie creazioni. Le arti visive – insieme però a molteplici altre attività – mi hanno accompagnato per tutta la vita, ma solo in tempi relativamente recenti vi ho dedicato il mio impegno a tempo pieno. Le azioni intraprese sono state inizialmente unirmi in gruppo con altri aspiranti artisti, recepire le indicazioni di importanti maestri e curatori e naturalmente cercare occasioni per esporre, cosa che, anni fa, era estremamente più semplice.

Tra le mostre più importanti vanno annoverate “Pittura e materia” (2005), tenutasi presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, a cura di Maurizio Calvesi e del vice-Soprintendente Mario Ursino e la personale “Meltin’ Pot”, presso Palazzo Chigi di Formello (RM), nel 2014, curata dalla Soprintendente alla GNAM, Maria Vittoria Marini Clarelli. Due periodi diversi della tua carriera, segnati probabilmente da decisioni espressive diverse. Quali sono gli elementi di raccordo e di rottura, se consideriamo questi due momenti?

L’elemento di rottura, che mi ha impedito di cogliere i frutti della mostra presso la GNAM, è stato un grave problema abitativo. Avendo perso, dopo lunghe vicissitudini, la mia casa-studio a Roma, ho dovuto trasferirmi in campagna, cosa che mi ha penalizzato dal punto di vista relazionale. Il mio spirito creativo non si è mai inaridito. Cessata la mia attività di allestitrice e grafica presso la GNAM, ho mantenuto buoni rapporti soprattutto con la Soprintendente, che si è offerta di curare la mia personale “Meltin’ Pot” (2014), presso il Palazzo Chigi di Formello, evento che ha segnato il mio rientro sulla scena artistica. Una mostra molto vasta, nella quale ho potuto ricucire il mio percorso, ponendo sullo sfondo alcune mie opere del passato, dando però maggior rilievo a quelle realizzate con materie plastiche trattate ad alta temperatura.

Il critico Maurizio Calvesi, parlando dei tuoi bricolage, o oggetto-personaggi, come li definisce, ha scelto una descrizione poetica e allo stesso tempo ha parlato di profili socio-psicologici precisi: “[…] l’angelo che protesta per lo spazio troppo angusto in cui è stato ristretto, e il poverino è disprezzato dalla calamita promossa ad arco, gonfia di boria per il posto privilegiato che occupa contro uno sfondo di cielo; la tavola del bucato severamente corrugata che ordina “in riga” alle vittime-zimbello a lei sottoposte; il torso senza arti che è preso in giro dalla miriade impazzita e girotondina di pettini, stanghette, lucchetti, circoletti e stelline che lo attorniano irridendo alla sua immobilità; le griglie di New York-New York che insuperbiscono fingendosi grattacieli, da griglie a guglie; la molla che chiede di potersi espandere per scacciare gli altri occupanti del rombo; i sassi insofferenti della prigione troppo affollata che chiedono di essere liberati e potersi spargere a piacimento per terra. Senti che incrociarsi di voci, […] esuli di una totalità perduta, al cui espatrio tu hai dato un nuovo approdo e un nuovo contesto in cui esibirsi.” Cosa vedi nell’oggetto che trovi e a cui decidi di dar voce? O è l’oggetto-personaggio che trova te per potersi raccontare?

Straordinario il modo in cui Maurizio Calvesi è riuscito a entrare nella mia poetica e anche nella mia mente. Altrettanto sorprendente il tuo intuito, quando mi chiedi se sia io a voler dare nuova vita all’oggetto o sia esso a proporsi alla mia attenzione per essere salvato dalla distruzione e dall’oblio. Credo che in tutti i contesti ambientali gli oggetti, in uso e non, si dispongano, come per caso, in relazioni spaziali, che spesso nulla hanno da invidiare a molte composizioni artistiche, dando vita a quel tipo di arte che io chiamo “involontaria”. Individuo, raccolgo e catalogo oggetti generalmente ignorati da altri. I miei archivi di oggetti e materiali recuperati sono immensi e attendono di essere trasformati in opera. Mi piace però pensare che siano gli oggetti stessi ad aggregarsi secondo il proprio estro, cercando poi di farsi notare occhieggiando in spiaggia fra le dune di sabbia, emergendo dall’asfalto delle strade, dal fondo di cantine o tra scarti di cantieri, lasciandosi magnificamente degradare dalle intemperie o calcinare dal sole. In realtà si tratta, credo, di fortuiti, quanto fortunati incontri: a loro il compito di mostrare la loro potenzialità espressiva, a me quello di riconoscerla e inserirla nel mio immaginario, fino a cristallizzare l’attimo nel quale assumono relazioni spaziali e concettuali che ritengo di voler concretizzare.

Prigione nero, 2014 (sx) e Giocoliera, 2014 (dx)

Mi sembra che i tuoi oggetti in disuso siano vivi, dotati di luce, non propria (sei tu a conferirla) e sono anche equipaggiati con un’essenza cromatica che li rende partecipi totalmente della tua azione artistica. La plastica viene totalmente piegata, trasformata, rigenerata in altro. L’artista ricrea, mette in luce, espone. Cosa avverti in questo compito per nulla semplice e così somigliante alla creazione originaria?

“Conferitrice di luce” è forse il più bel complimento che abbia mai ricevuto! Che il mio compito possa paragonarsi alla creazione originaria (della quale in effetti nulla sappiamo), mi sembra comunque una responsabilità troppo grande. Tuttavia, in quanto appassionata e faticosamente studiosa della fisica quantistica e delle attuali concezioni scientifiche del reale, mi sono convinta del fatto che noi tutti siamo creatori: pare infatti che nulla esista se non nel momento in cui le onde elettromagnetiche, vibranti, ma mute e buie, di cui è composto l’universo, o meglio il multiverso, si materializzino solo e allorquando cadono sotto i nostri sensi. Credo però che l’artista abbia il privilegio di compiere un passo in più: la sua è una è una creazione nella Creazione. Dà infatti vita a qualcosa che senza il suo intervento, non esisterebbe neanche in modalità virtuale. Qualcosa di non utilitaristico, ma che risponde a un misterioso istinto primordiale di comunicazione. Credo che l’artista esprima in definitiva il proprio “IO” o meglio il riflesso che la sua concezione del reale esercita sulla propria coscienza.

Dal 2000, nelle tue sculture c’è molta sperimentazione, per forme e materiali, e forse anche un certo grado di gioco. Misurano (come in La Giocoliera, 2014 e Prigione nero, dello stesso anno), contengono (in Il vuoto attira, 2002, Libro, 2003) oppure giocano in modo scanzonato e portano l’inaspettato in installazioni improbabili, come la mucca sullo skateboard (in Ci provo?) che deve scendere girando un angolo di 90 gradi. Quanto è importante per te l’ironia nell’arte?

Nei miei lavori riveste una certa importanza, ma molta di più nella mia vita in generale. L’ironia e ancor più l’autoironia sono nelle mie corde: mi annoia chi non sa cogliere una battuta, non recepisce giochi di parole, che siano surreali o maliziosi doppi sensi. Mi attraggono anche l’assurdo e il paradosso e mi capita talvolta di riversarli nelle mie composizioni, senza premeditazione però: sono sempre i miei “personaggi” a fornirmi gli spunti. Così è accaduto per la piccola installazione “Ci provo?” in cui la vecchia e malconcia mucca in legno si trova alle prese con lo skateboard: un lavoro concepito per gioco, che è stato però, a quanto pare, preso molto sul serio e premiato in ben due concorsi.

Dal 2016, i tuoi quadri si fanno più articolari, ma anche più controllati geometricamente. Le forme diventano simbolo e sono a volte interrotte (Il varco, 2017), asimmetriche e smussate (Checkpoint, 2017) o alleggerite da colori, caldi e freddi, che riescono a dare anima a una superficie piatta e buia (Cabrei I e II, 2017). Oppure l’irrequietezza è confinata nel cerchio (Bianco irrequieto, 2017, Inverno, 2017), e qui conserva un’attività pulsante che evita alla materia di amalgamarsi. Movimento e controllo possono o devono trovare equilibrio?

Ho sempre tentato di superare il mio istinto all’equilibrio e al controllo, di escludere la progettualità dalla concezione dell’opera. Ma evidentemente la mia formazione di architetto mi rende arduo esprimermi con l’impulsività irrazionale che desidererei. Tuttavia, da quando le fusioni di materie plastiche hanno monopolizzato la mia attenzione, ho potuto sfruttare la loro risposta “anarchica” al calore, per delegare al caso gran parte del risultato compositivo. Ne sono scaturiti lavori nei quali il profondo intrico e la sovrapposizione della materia hanno sostituito con l’irrequietezza quella staticità che desideravo superare

Checkpoint, 2017

Hai elaborato una tecnica particolare di melting, in cui l’oggetto di recupero viene di fatto squagliato. Così perde le proprietà aggregatrici che lo contraddistinguevano in origine. Crei perciò nuova materia con nuova chimica. La tua è una trasformazione quasi alchemica; penso a Pagina criptica, 2013, e ancora più vistosamente nei quadri denominati Meltin’pot, 2014. Da questi in poi la città tutta si scioglie sotto l’artificio dell’artista, che ne dispone come luogo plasmabile, imprigionando il buio e incastonando la luce che emerge da finestrelle illuminate (o di colore rosso fuoco o di riflessi argentei sul nero). Melting pot come crogiuolo di cosa? Qual è la società ideale che ami ritrarre?

Nei primi lavori “melting”, l’entusiasmo di scoprire la risposta al calore delle materie plastiche mi ha portato a creare accumulazioni caotiche e a sfrenati miscugli cromatici. Più tardi la mia anima dark mi ha indotto a privilegiare fusioni in tonalità grigio-nero e composizioni più articolate: ne è esempio significativo la grande installazione permanente del 2015, presso il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, fondato a Roma, da Giorgio de Finis. Meltin’ Pot, celebre brano musicale degli anni ’60, era un inno al crogiuolo delle razze. Molti di noi hanno sognato un mondo privo di confini ed è un pensiero che ancora molto attrae. Oggi però l’utopia di una società ideale si disintegra di fronte alla consapevolezza che i popoli stessi non possano più autodeterminarsi, dato che le loro sorti sono manovrate dai “Signori della Terra”, che gestiscono, in maniera dissennata, la finanza mondiale. Viviamo in un periodo storico caratterizzato da contraddizioni, grandi sperequazioni e mancanza di solidi punti di riferimento. Per quanto mi riguarda non faccio alcun tentativo di ritrarre una società, che sia o meno ideale: con la caduta di ogni ideologia, credo equivarrebbe a inseguire una chimera. Oggi l’unica mia filosofia di vita è riposta nella scienza, che tuttavia, dopo le clamorose teorie innescate dal genio di Einstein, offre attualmente più dubbi che risposte, prospettando una visione del reale che è ancora agli albori.

Nel 2018, la tua opera Piattaforma AL-13 ha ricevuto una menzione speciale dalla Giuria critica del premio internazionale COMEL. Un riconoscimento importante dopo essere stata selezionata tra tanti artisti europei. Vuoi raccontarci come è nata l’opera e com’è stata la partecipazione al Premio?

Era da tempo che pensavo di partecipare al Premio COMEL, dato che l’alluminio, anche se prevalentemente in senso tecnico, mi ha sempre affascinato durante il mio lungo percorso di industrial designer. Solo in tempi recenti e proprio grazie al Premio. Avevo già intuito le potenzialità dell’alluminio in campo artistico e, dal momento che la materia è il filo conduttore del mio lavoro, ho deciso di mettermi in gioco. Ho riversato nella mia opera “Piattaforma AL-13” due delle mie prerogative: l’attitudine al costruttivismo, nella composizione della struttura di base, e l’accumulazione caotica di materia, come cuore emozionale dell’opera. Non nascondo l’orgoglio provato nel trovarmi nella rosa dei finalisti e la sorpresa di ricevere la menzione speciale! Ma c’è molto di più nelle sensazioni provate nell’entrare in contatto con la COMEL: è un mondo a parte che ti accoglie, con grande professionalità, in un’atmosfera serena ed amichevole.

E il dopo COMEL?

Uno dei più importanti che mi sia capitato di affrontare e senz’altro il più impegnativo e faticoso. Avrò a breve a disposizione, per una settimana, uno dei quattro Atelier presso il MACRO-Asilo diretto da Giorgio de Finis, a Roma. Lì dovrò realizzare un’opera dal vivo, che sto progettando con molta trepidazione, dal momento che la mia tecnica è piuttosto tossica e dunque impossibile da impiegare all’interno del Museo. Dovrò quindi preparare dei semi-lavorati da assemblare poi sul posto, dando vita ad una mega installazione ed altri manufatti. Sarà quindi anche per me una sorpresa l’effetto finale che darà l’aggregazione, nella sala, della moltitudine di elementi plastici che sto preparando, tessuti su reti metalliche. Sarò in Atelier dal 27 maggio al 3 giugno: una maratona dalla quale spero di uscire viva, anche perché immediatamente dopo mi attende un’intera sala dove esporre i miei lavori, presso il Palazzo Rospigliosi di Zagarolo (RM), in virtù di un premio conseguito nel concorso bandito dal Museo del Giocattolo. Nel frattempo, sto terminando una grande scultura multimaterica per la Biennale di Roma.

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