MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA 2018

Intervista a Federica Zianni

di Rosa Manauzzi

Federica Zianni nasce a Roma nel 1993 dove si diploma al Liceo artistico dell’istituto Sant’Orsola. Nel 2012 si trasferisce a Milano per frequentare il triennio di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. I suoi lavori scultorei inizialmente figurativi si evolvono poi in opere organiche ed astratte. Si laurea al triennio della Scuola di Scultura nel 2015 con lode. Frequenta la Hochschule für Bildende Künste di Dresda fino al 2017. Frequenta il biennio della Scuola di Scultura con il professor Vittorio Corsini presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove si laurea nel 2018 con lode.

Il 2018 è stato un anno molto importante per la tua carriera artistica, tredici mostre e premi di rilievo internazionale. Qual è la forza propulsiva della tua arte e in particolare di quest’ultimo anno di successi?

La mia forza propulsiva è nell’atto stesso di creare arte. Quando lavoro mi sento momentaneamente pacificata nella condizione di ansia e irrequietezza in cui vivo. Tutta la mia forza viene incanalata nel processo creativo e nel momento in cui un’opera è conclusa, sento riaffiorare dentro l’impazienza di rimettermi all’opera con un altro progetto, che esorcizzi le mie fobie e le mie smanie.
Per me, essere artista è una condizione da cui il mio essere non può prescindere, un lavoro e una terapia attraverso la quale mi scopro lentamente a me stessa, a tratti con sorpresa, a tratti con inquietudine.

Federica e l’arte. Com’è iniziato il tuo percorso e quali sono state le esperienze determinanti che ti hanno portato a maturare una visione già ben strutturata dell’arte, nonostante la giovane età?

Sono sempre stata una bambina creativa e questo lo devo a mia madre, che mi ha sempre spinta ad assecondare le mie inclinazioni e a difenderle con forza. Mi ha insegnato ad essere una donna forte, ma sempre nel rispetto della mia sensibilità, forse in contrasto al suo vissuto. Ho appreso con dolore, crescendo, che lei non ha potuto seguire il percorso che avrebbe voluto: ad una donna non era concesso sperare nell’indipendenza economica, senza un marito a fianco che la mantenesse.
Sono fortunata ad avere avuto questa spinta da parte di mia madre, perché il suo sostegno mi ha rassicurata nei momenti in cui il dubbio mi ha assalito nel modo più opprimente.
So di essere nata in un momento storico in cui la donna sta scoprendo il suo ruolo nel mondo e sono sicura che la mia irrequietezza risieda anche in questo, ovvero nel fatto di poter godere di diritti di cui mia madre non si è potuta avvalere, e questo mi spinge a non deludere le aspettative, a spingermi sempre oltre.
Ho passato i test di ingresso all’università di architettura e di design a Roma, nonostante questo ho deciso di trasferirmi per studiare all’Accademia delle Belle Arti di Brera, perché sapevo che nella distanza con la mia famiglia, avrei trovato la mia strada.

Labirynth II

Labyrinth è l’opera che al Premio COMEL, VII edizione, ha conquistato la Giuria, che ti ha attribuito una menzione d’onore. La scultura rappresenta la struttura ossea interna dell’orecchio; metaforicamente il senso dell’incomunicabilità tra gli individui. La forma circolare e spesso labirintica delle tue opere consente una sorta di riavvolgimento ma anche di riflessione, una circolarità che sospende la rumorosità e ci sospinge verso un loop infinito nella speranza, forse, di individuare le parti importanti di un fraseggio ripetuto eppure non compreso. Come nasce Labyrinth e le altre sculture serpentine così lontane dalla figurazione eppure così meccanicamente umane, nel senso anche più fisiologico del termine?

Le mie sculture nascono non come risposte, ma come dei punti di domanda verso me stessa. La circolarità, la forma chiusa è ciò che mi ossessiona, e riproducendola cerco di avvicinarmi al mio enigma. La mia domanda è: nasciamo come sistemi prettamente chiusi? C’è una via di uscita alla gabbia quotidiana che ci autoimponiamo anche se inconsciamente? Ho sentito il bisogno di lavorare su come un’opera possa aprire a canali di comunicabilità e scalzare l’orizzonte dell’aspettativa, attraverso il suo essere presente. La mia ricerca è lunga ma sento di essere sulla buona strada.

Affascinante la serie dei padiglioni (Riceve, risponde, istallazione del 2015, rete zincata e resina poliestere) che sembra voler captare una presenza e stabilire una qualche corrispondenza tra l’artista e il mondo circostante, tra ciò che l’artista crea e l’opera che lascia come testimonianza. L’arte può essere un canale attraverso il quale chi osserva può avvertire sensibilmente nuovi stati di sé e riconoscere chi lo circonda?

Non esiste arte che non nasca per essere fruita. La sua stessa esistenza nasce da una necessità inspiegabile di autoimporsi come demiurgo di qualcosa, che al di fuori della natura non sarebbe mai esistito, attraverso la più arcaica concezione di technè.
L’opera è premio di per sé allo sforzo di crearla, ma io credo che un’altra forza propositiva sia la condivisione di ciò che è stato, in modo del tutto inedito, creato, e che la soddisfazione della condivisione sia il fattore che determina l’inesauribilità dell’arte.
La mia istallazione
Riceve, risponde esiste per rispondere alla mia necessità di non sentirmi completamente isolata nella mia ricerca in una corrispondenza con “l’altro”.

Riceve, risponde

Non tralasci una contemplazione filosofica che assume i caratteri di un manifesto: all’obbligo (devi) si oppone la volontà (voglio), come fai nell’opera You Must (2017, gesso e silicone), che dichiaratamente colleghi ad un passaggio di Nietzsche in Così parlò Zarathustra. Dal tu che prende ordini, si passa alla consapevolezza dell’io di essere artefici del proprio destino e della propria arte. Dal sentire all’ascolto vero che torna a dare voce, che libera dai labirinti in cui ci ricacciamo continuamente…

Creare arte per me significa instaurare un dialogo sincero con la parte più intima di me stessa. Se mi accorgo che, ciò a cui lavoro non mi turba, ne deduco che non sarà tanto profondo da arrivare a toccare gli altri. Non con poco sforzo mi costringo ad interrompere e ad iniziare un altro progetto.
Essere artista comporta un’organizzazione ferrea del tempo, perché non essendo un lavoro in cui “si timbra il cartellino”, necessita di un’autodisciplina non da poco, che impone delle ore di lavoro manuale e delle ore di riflessione e progettazione. In me sento sia il drago d’oro di Zarathustra che comanda
Tu devi, sia il leone che ruggisce Io voglio, e così costruisco il mio essere artista, tra la necessità impellente di disciplina e un’irrefrenabile voglia di libertà.

Al fiore di loto hai dedicato alcune opere di ceramica. I fiori accolgono la luce del mondo mentre fluttuano nell’aria. L’arte può avere lo stesso potere di raccogliere bellezza e diffonderla?

Secondo me, l’arte non deve essere necessariamente bella, ma deve attuare un processo maieutico in chi ne fruisce anche attraverso l’inquietudine e l’orrore. Secondo Dostoevskij la bellezza salverà il mondo, io dico che il sublime salverà l’essere umano.

In Studio dell’animale uomo (2015, inchiostro su foglio acetato) la tua indagine da Grande Fratello esplora e raffigura l’uomo nella quotidianità, immortalandolo nelle pose più comuni (mentre mangia, mentre usa il computer ecc.) eppure riducendolo a tratti minimali e fumettistici, quasi a cercare l’essenza di ogni azione. Come nasce questa ricerca?

Nasce dal mio bisogno di quotidianità. Ho iniziato Studio dell’animale uomo per poter portare con me quel senso di familiarità che cerco, ma non so come non riesco a raggiungere. Attraverso lo studio analitico di azioni banali mi sono creata un luogo fittizio in cui effettivamente avvengono gesti abituali di cui io vorrei circondarmi.

Loop I

In Paesaggio nel paesaggio (un progetto del 2016 con fotografia digitale), inserisci alcuni quadri naturalistici (immagini riflesse in specchi strategicamente posizionati) all’interno di paesaggi esistenti, ottenendo così un effetto riflesso e contemplato della natura. Lo specchio diviene quasi un portale magico in attesa di entrarvi dentro. Cosa scopriremmo entrando nel cuore della natura?

Ho sempre affermato che l’essere umano non è un animale naturale ma culturale e che la sua realtà è costruita e non incontaminata. L’arte che produco, le fotografie che scatto sono mirate ad una ricerca che coinvolge tutto il mio corpo: avrei potuto scattare delle foto naturalistiche e definirle belle, invece ho voluto aprire ad una possibilità inedita di paesaggio che riflettesse se stesso, anch’esso, non completamente naturale ma manipolato. Esiste qualcosa al di là di quello che vediamo, cosa sia non lo so ancora.

Quali sono gli strumenti di lavoro che prediligi per creare le tue opere?

La manualità è alla base della mia produzione e il materiale è asservito al messaggio che voglio comunicare, quindi dal punto di vista strumentale le possibilità sono pressoché infinite.

Il prossimo impegno artistico in programma?

Sto faticosamente preparando la mia domanda di Dottorato in Arte da presentare all’estero. Un obiettivo molto impegnativo in cui mi sto applicando molto, perché voglio ampliare i miei orizzonti e le mie conoscenze nel campo dell’arte ed arrivare, spero, a diventare un’artista di rilievo a livello internazionale.
Nel frattempo, non mancano mostre personali e collettive in Italia.

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