Valeria Gramiccia2024-04-05T20:55:41+02:00

I FINALISTI DEL PREMIO COMEL 2016

Valeria Gramiccia

Roma, ITALIA

I FINALISTI DEL PREMIO COMEL 2016

Valeria Gramiccia

ROMA, ITALIA
CENNI BIOGRAFICI

Artista romana. Da sempre nel mondo dell’arte. Dopo il diploma, presso l’Accademia di Roma, ha lavorato per la Galleria d’Arte Moderna. Successivamente assistente di studio di Afro e poi di Pietro Consagra. Ha partecipato all’organizzazione di importanti mostre nazionali e internazionali. Ha ideato e diretto una serie di documentari su vari artisti. Solo dalla fine degli anni ’80, dopo aver elaborato e maturato esperienze e conoscenze, decise di dedicarsi esclusivamente alla pittura.
Nella seconda metà degli anni ’90 ha lavorato sui “bilichi”, “pittosculture” in legno, con le quali ha iniziato la ricerca sulla spazialità. Ha partecipato a numerose mostre. Ha realizzato anche mosaici e gioielli. Sue opere sono presenti in collezioni pubbliche (Galleria comunale d’arte Moderna e Contemporanea, Roma; Carcere circondariale di S. Maria Capua Vetere, quale vincitrice del concorso per le opere pubbliche; Museo della scultura di Matera – MUSMA, museo Benaki, Atene) ed in collezioni private in Italia e all’estero.

OPERA IN CONCORSO

GRAFIE SEGRETE, 2016

SCULTURA - Tecnica mista su metallo
cm 100 x 85 x 5

L'opera di Valeria Gramiccia (Grafie segrete) è uno spartito di forme luminose, poste in uno spazio intimistico e assoluto, circoscritto da un elegante, "miracoloso" segno circolare. Si coglie nel lavoro la grande abilità prospettica in chiave astratta dell'artista, affidata alla forma e al colore, alla Magnelli si direbbe, a cui il fondo uniforme e come distante e impersonale conferisce un taglio di compiutezza misteriosa e assorta.

RICONOSCIMENTI

PREMIO ALLA CARRIERA 2016

con la seguente motivazione:

"Il premio viene assegnato a Valeria Gramiccia, artista che ha vissuto dall’interno e con assoluta rilevanza il milieu artistico italiano degli ultimi decenni, sia sul piano creativo che storico-artistico. Ha collaborato alla cura scientifica e organizzativa di mostre ed eventi di rilievo internazionale, è stata assistente di grandi maestri contemporanei. Oggi rappresenta una delle testimonianze più coerenti e raffinate dell’arte italiana presente. Il suo registro, caratterizzato da un segno leggero e sicuro, in particolare nell’arte grafica, tra articolazione astratta e dimensione onirica, si pone contemporaneamente nel solco della tradizione più felice dell’espressionismo astratto del dopoguerra e in quello di un’arte concettualmente colta, elaborata come riflesso di una rara e poetica pronuncia espressiva.”

(Dal verbale della giuria)

Intervista di Rosa Manauzzi

Valeria Gramiccia lavora in uno studio spazioso e pieno di luce, in un attico del quartiere Parioli, a Roma. Dalla terrazza si può osservare, lontano dal rumore del traffico, la bellezza della capitale: il cupolone, lo skyline a 360 gradi. E anche la bruttezza, “gli abusivi”, come li definisce lei. Protuberanze, costruite in cima ai palazzi, che appesantiscono pericolosamente gli edifici. Lo studio dell’artista è ricco di ricordi e testimonianze artistiche notevoli. Qui infatti ha potuto studiare a stretto contatto con Afro e qui ha continuato a vivere l’arte e a custodire la stratificazione delle tante importanti esperienze con i grandi Maestri, i viaggi, gli incontri, gli eventi organizzati con altri importanti artisti.

Quando entro, in compagnia della titolare di Spazio COMEL, Maria Gabriella Mazzola, per iniziare questa intervista, so già che ci attende una mattinata speciale e le emozioni si mescolano e sintonizzano in questo senso. Di sottofondo musiche francesi. Intorno vasetti con terre colorate, pennelli, tavoli, e varie macchine da lavoro (per tagliare, modellare, incollare, ecc.), alcune acquistate appositamente per lavorare l’alluminio, stimolata, ci spiega, dal Premio COMEL. Mentre nell’aria di espande il piacevole aroma di un caffè, il nostro primo incontro con le sue opere è attraverso i bilichi, alcuni dedicati al pittore Novelli.

In seguito ci mostra i paracarri di Consagra (una rivisitazione contemporanea dei paracarri di Bernini), la sua “Città frontale”, risultato di un’idea utopistica di città occupata dagli artisti, che, secondo la visione del Maestro, dovrebbero in qualche modo ridare vita a città squadrate dagli architetti perché “La città non può essere concepita con riga e squadra”.

Inoltre ci mostra le sue misteriose scritture e preziose carte orientali su cui ama dipingere. Non si risparmia negli aneddoti e nel mostrarci l’arte di Afro, Consagra, e le sue opere. Seguire i suoi racconti è un’immersione affascinante nella storia dell’arte moderna e contemporanea.

Valeria Gramiccia è stata un’artista impegnata, e rimane dell’idea che l’arte di un tempo aveva un’autenticità, anche politica, che oggi si è persa. Le gallerie, racconta con rammarico, non ci sono più. Mentre una volta erano il luogo dell’incontro e dello scontro, degli artisti e di chi amava l’arte. “Alle sei di sera gli artisti si ritrovavano tutti in galleria”, ci dice raccontando della sua esperienza presso la galleria Mara Coccia.

Ha nostalgia di una creazione artistica libera dal mercato e sente la mancanza degli scontri ideologici, che almeno avevano scuole di pensiero dietro. Con preoccupazione pensa ai giovani di oggi, abituati passivamente più ad accettare che a ricercare. Tuttavia, riconosce un valore importante all’educazione, una speranza: scuole e famiglie possono ancora fare molto, restituire la libertà e la creatività, come fa lei con sua nipote Bianca, che fin dai sei anni, porta in giro per il mondo. La stessa Valeria è stata una bambina che ha visto tanti Paesi, grazie al padre, uno dei più importanti studiosi di malaria al mondo, e grazie anche al suo spirito libero.

Per la sua vicinanza ad Afro, è probabilmente la persona che conosce di più la sua arte e ci svela un segreto: “Dopo il ’48 non ha mai più usato colori ad olio. Usava polveri, pigmenti in polvere e il Vinavil. Diciamo più precisamente intorno al ‘50, perché dopo la guerra, gli artisti italiani, usciti dalla guerra, hanno fatto il primo viaggio in America. E a New York c’era una gallerista che si rivelò fondamentale per loro, Catherine Viviano, che ha incominciato a occuparsene. Qui gli artisti italiani hanno scoperto il Vinavil, che in Italia non esisteva. Per cui questa colla, con le polveri, ha consentito anche a Burri di fare i cretti. Il materiale, in fondo, influenza moltissimo l’artista, lo condiziona molto. Successe qualcosa di simile con la pittura ad olio, secoli prima, in Italia. Arrivò a Venezia grazie a un pittore, non di grande fama, che si recò in città portando l’olio trasparente. Per cui tutta la base di Tiziano, è colore a tempera che poi lucidavano con l’olio. Il primo ad usarlo proprio come medium è stato Antonello da Messina. Nella mia arte il cambiamento recente c’è stato con la scoperta dell’alluminio, soprattutto con il Premio COMEL. Anche se non ho abbandonato la carta, che adoro, e avverto sempre l’urgenza del colore.

Come è iniziata la tua esperienza artistica? E com’è stata considerata la tua scelta in un contesto in cui le donne dovevano occuparsi di altro?

Nella mia famiglia amavamo l’arte e frequentavamo gli artisti. L’infanzia passata all’estero, con i miei genitori, è stata determinante per non essere legati alle “convenzioni” romane. Ho avuto la fortuna di avere un’infanzia molto curiosa perché mio padre stava all’estero, a 6 anni sono partita per l’India, poi so andata in Egitto, in Libano, poi qua poi là, per cui questa abitudine a muovermi, a viaggiare, a stare ovunque sentendomi a casa è stata ed è importante.

Quali scuole hai frequentato e quali sono stati i tuoi artisti di riferimento nel corso degli anni?

Ho frequentato il liceo artistico e poi l’Accademia di Belle Arti di Roma. Erano gli anni in cui i “grandi” insegnavano, e fra i professori del liceo ho avuto: Afro, Capogrossi, Novelli, Turcato. Klee e Licini sono sempre stati dei grandi amori. L’arte antica come base di partenza, e tutti gli artisti che oltre alla creatività dimostravano grande qualità e coerenza nel lavoro.

Il nome Valeria Gramiccia è legato indissolubilmente a due grandi artisti: Afro e Consagra. Lo consideri più un fardello o una benedizione? C’è una lezione ricevuta dai due che ritieni “necessaria” alla tua arte presente?

Ho sempre dichiarato che aver avuto dei “padri” così importanti è stata la mia grande fortuna. Raggiungere poi la propria autonomia è stato un processo lungo.

Cosa diceva dei tuoi lavori Afro?

Ha visto solo qualcosa. Ogni tanto mi mettevo a lavorare per conto mio mentre ero nel suo studio. Un giorno mi ha ridato un pacco con tutti i miei disegni perché, mi disse, “L’altro giorno uno ne voleva comprare uno, portateli a casa altrimenti pensano che sono miei.” Poi ha aggiunto: “Adesso devi cominciare anche a lavorare per conto tuo” e m’avrebbe anche appoggiato. Solo che è morto, gli è venuto un ictus. Alcuni bozzetti che ho fatto risentono molto dello stile di Afro. Per cui per cambiare ho cominciato a fare dei quadri molto chiari, che non è nella mia natura. Poi ho personalizzato il lavoro, è diventato completamente mio. Sull’influenza dei grandi artisti, dico che è meglio avere un padre come Afro che essere figli di nessuno.

Sul finire degli anni ’70 hai partecipato insieme ad altri artisti al “Fronte dell’arte” a Matera. Puoi raccontarci brevemente in cosa consisteva la vostra azione?

Essere fra i fondatori del “Fronte dell’Arte” è stato del tutto congiunturale. Ero a Matera come assistente di Consagra: sarei stata la segretaria del Fronte ma, mancando il numero legale per costituirlo (alcuni artisti che avevano aderito non erano venuti a Matera), sono stata promossa sul campo “pittrice” e socio fondatore.
Il Fronte dell’Arte proponeva e aspirava alla partecipazione degli artisti nella riqualificazione e nel restauro dei centri storici.

Fino agli anni ’80 ti dedichi prevalentemente alla cura di altri artisti, facendoli conoscere al grande pubblico attraverso mostre e documentari. Eppure in tutto questo hai avuto invece una certa timidezza ad esporti.

Ho collaborato in vari modi a mostre, cataloghi, realizzato video, ma certo non è stato il mio lavoro a cambiare il destino degli artisti per i quali ho lavorato: ho sempre accettato di collaborare con i più “grandi”, e non espormi mi ha permesso, osservandoli, di assorbire ed elaborare i loro insegnamenti.

In occasione di una mostra a Spoleto nel 1996, l’artista Achille Perilli ha dichiarato: “La narrazione in senso astratto è per Valeria Gramiccia un’altra componente fondamentale che recupera il senso del fiabesco: un raccontare che non è reso da immagini della realtà, ma con un ricordo di calligrafia araba, da Mille e una notte, da miniatura persiana o da libro per l’infanzia…”. Molto spesso l’artista è davvero colui/colei che meglio riesce a preservare il sogno dell’infanzia nel corso degli anni e a ricordarlo a chi si ostina a pensare alla crescita come abbandono della fanciullezza creativa.

Le mie opere rappresentano un racconto astratto, una favola, dove ogni segno è una lettera che componendosi con altri segni forma la frase e poi il racconto al quale ognuno dà il proprio significato.

L’assenza della forma, nelle tue opere, fa prevalere la qualità della pittura. Da quali elementi è composta una buona qualità di pittura? Ed è percepibile da chi osserva l’opera? O nell’arte contemporanea si ha sempre bisogno di essere guidati in qualche modo per arrivare all’essenza dell’opera?

Le mie opere non sono gestuali: le forme esistono, non sono naturalistiche, ma ben definite. Non credo che l’arte non figurativa abbia bisogno di spiegazioni interpretative. Vive per quello che gli occhi trasmettono al cervello. La qualità della pittura la percepisci nello stesso modo in cui la noti in qualsiasi altro oggetto. Lo spettatore che guarda l’opera non si deve chiedere il significato. Questa è una domanda che un artista non si pone. Secondo me la lettura di un’opera d’arte avviene a due livelli. La prima è mi piace o non mi piace, mi dice qualcosa o no, altrimenti passo avanti. Se vedi un quadro di Mondrian non puoi chiedere che significa. Puoi chiederti “come occupa lo spazio”, quello è l’unico significato che ha. Anche nel caso di un quadro figurativo, l’attenzione si sofferma sulla qualità, se l’occhio è educato ad osservare. E l’occhio si educa vedendo. Il secondo livello si esplica così: se ti piace, vai a rivederlo e scopri la qualità, il perché della qualità, e allora dai una lettura diversa. Nella lettura non figurativa, nell’arte non figurativa, le cose essenziali sono come lo spazio è occupato, come leggi il gesto dell’autore, il segno. In fondo quelli di FORMA 1, che combattevano tutto il realismo, Guttuso, e via dicendo, avevano come motto: LINEA, FORMA e COLORE. Loro partivano da queste cose. Carla Accardi, Perilli, Turcato, D’Orazio, Consagra, linea, forma, colore. Questo è proprio l’inizio del Manifesto di FORMA 1.

Cos’è che non è bastato più nel figurativo?

Le avanguardie che hanno rotto completamente qualsiasi schema. E non è stata solo questione di stile, anche di messaggio, di contenuto intellettuale. Ormai a livello di Raffaello e simili, non ci si poteva più arrivare, diciamolo. E poi la gente era interessata ad altro. Quando Monet comincia a fare le Ninfee, è lui che si inventa la parola Impressionismo, col quadro “Impression du soleil levant” [1872]. Incomincia a scomporre, non ha più la linea dell’orizzonte e il sole che sale. Ha un problema di luce, unicamente di luce, crea tutte quelle cattedrali basandosi sulla luce. E qui si ritorna al punto della sensazione. Perché se lui riproduce la luce che cambia la facciata della cattedrale di Rouen, la mattina, a mezzogiorno, la sera, guarda proprio la luce come scompone la forma.

La tua materia è mutante, non sottrae ma aggiunge, stratifica diversi pesi e materiali, da cui sapientemente fai emergere la tua realizzazione finale. Qual è il processo che ti conduce a tale risultato?

Il risultato deve dare un senso di ambiguità, di peso e leggerezza, e questo lo ottengo lavorando per velature, stratificazioni. Partire dal leggero e poi aggiungere. È più facile aggiungere che togliere. Come il sale sui cibi.

Molte tue opere, i bilichi, sono definite pittosculture. Cosa sono e quanti tipi di linguaggi possono sommare?

Negli anni ‘90 ho sentito il bisogno di vedere cosa succedeva dietro la tela che dipingevo. Cosa succedeva alle forme che io componevo, vedendone non più un solo lato. Così sono nati i “bilichi” in legno. Che Mirella Bentivoglio ha definito “pittosculture” in una delle sue recensioni. Sono stati i primi passi verso la scultura.

L’idea del bilico come nasce?

Il bilico nasce proprio dalla curiosità di vedere cosa c’è dietro la tela. Ovvero, creo un quadro che ha solo una dimensione, una sola facciata, se lavoro sulla tela, non c’è né la seconda né la terza dimensione. Vedo solo una facciata. Però queste sovrapposizioni che ho fatto qui, dietro come funzionano? Come è il dietro? Il bilico permette di saperlo. Assume un’altra forma. Vedere se funziona pure dietro la tela. I personaggi escono, si prendono la libertà di sconfinare. Però devono ubbidirmi. Non è come il mobil in cui si muove ogni pezzo singolarmente. Perché io lo penso così e così deve rimanere e vediamo dietro che succede. Inoltre le forme escono dalla cornice. La cornice è un limite e io sono una ragazza ribelle!

Premio COMEL 2016, partecipi con l’opera “Grafie segrete”, che viene selezionata tra centinaia di opere inviate da tutta Europa, e ricevi un importante premio alla carriera che ha risonanza internazionale, perché questo è lo spirito del premio. Il tributo giunge direttamente dalla giuria guidata dal critico d’arte Giorgio Agnisola. Leggiamo nel giudizio: “[…] artista che ha vissuto dall’interno e con assoluta rilevanza il milieu artistico italiano degli ultimi decenni, sia sul piano creativo che storico-artistico. Ha collaborato alla cura scientifica e organizzativa di mostre ed eventi di rilievo internazionale, è stata assistente di grandi Maestri contemporanei. Oggi rappresenta una delle testimonianze più coerenti e raffinate dell’arte italiana presente. Il suo registro, caratterizzato da un segno leggero e sicuro, in particolare nell’arte grafica, tra articolazione astratta e dimensione onirica, si pone contemporaneamente nel solco della tradizione più felice dell’espressionismo astratto del dopoguerra e in quello di un’arte concettualmente colta, elaborata come riflesso di una rara e poetica pronuncia espressiva.

Come nasce “Grafie segrete” e quali sono i materiali che privilegi per le tue opere negli ultimi tempi?

Mi è stato chiesto dalla galleria COMEL di collaborare alla mostra di Afro che stavano organizzando. Parlando con gli organizzatori ho saputo del premio di arte contemporanea ed ho voluto partecipare. Ho cambiato il materiale: dalla tela, carta, legno sono passata al metallo, ma il processo di lavoro è rimasto sostanzialmente lo stesso. Sovrapposizioni, finte trasparenze, e per confondere il tutto, finte scritte per lasciare il massimo di libertà interpretativa. Devo concludere dicendo che “Grafie segrete” mi ha contagiata, e da allora sto lavorando sia su metallo sia su carta, materiale quest’ultimo che ho sempre privilegiato.

Anche in “Grafie segrete” hai utilizzato una delle tue misteriose scritture. Che funzione hanno?

Per una ricerca materica. Lavoro per velature, stratificazioni ecc.. Le scritte mi davano il senso della materia. Non volevo lanciare i messaggi tipo i futuristi, così ho iniziato con le scritte finte perché hanno bei caratteri, è bello il disegno della scrittura, diciamo.

Una scrittura così in Oriente non è più una scrittura falsa, è una scrittura che ha un senso. Il tuo mi pare un lavoro sul significante.

Esiste, certo esiste, ma siccome i caratteri sono messi al contrario… Tempo fa feci una mostra a Viterbo, molto bella… in una sala del ‘500. Misi tutti i bilichi appesi. Son venuti dei giapponesi che poveracci impazzivano per leggere le scritte. Non c’è nessun messaggio nascosto. La gente si scervella a pensare se qui ci avrà messo Ungaretti… Ma no, dico io, leggete con la vostra fantasia!
Sì, è un lavoro sul significante. Il mio lavoro si svolge come un racconto per me. Sono varie lettere che compongono anche le forme, diciamo. Io le interpreto come lettere che compongono delle parole.

Il tuo rapporto con i materiali com’è? E di quale non può proprio fare a meno?

La carta. L’amore per la carta è nato tanti anni fa quando andai in Giappone e a Kyoto mi portarono a visitare una cartiera che era un posto magico sul fiume, dove facevano la carta.
Vedi tutti questi? I primi acquarelli, ho fatto diverse mostre. Ho sempre lavorato sulla carta. Puoi farci tutto. Questi sono i vari bozzetti per l’opera presentata al Premio. Devo dire che il concorso ha cambiato il mio acquerello, anche i miei lavori su carta. È stato molto importante. La carta è utile per metterci su le idee che ti vengono. L’immediatezza sul metallo non la puoi avere. Puoi osservare l’opera in preparazione che evolve.

C’è qualche artista di questo periodo che segui, a cui sei interessata?

Sì, c’è. L’artista che in questo momento ammiro di più è Roberto Almagno [1954] che è uno scultore del legno. È di Aquino ma vive a Roma. È stato assistente di [Giuseppe] Mazzullo, poi si è messo a lavorare per conto proprio. È molto bravo. Sta avendo molto successo all’estero. In Italia al momento non ci sono gallerie.

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