I FINALISTI DEL PREMIO COMEL 2017

Rosaria Iazzetta

Mugnano di Napoli (NA), ITALIA
www.rosariaiazzetta.com

I FINALISTI DEL PREMIO COMEL 2017

Rosaria Iazzetta

Mugnano di Napoli (NA), ITALIA
www.rosariaiazzetta.com
CENNI BIOGRAFICI

Vive e lavora a Mugnano di Napoli. Docente di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, dal 2016, con esperienza pregressa quasi decennale di insegnamento accademico a Catanzaro e Frosinone. Unica vincitrice italiana della borsa di studio del Ministero degli Affari Esteri Italiano per artisti, viene finanziata dal governo giapponese (Monbusho) per specializzarsi in scultura in ferro alla Tokyo University of the Arts.
Pur avendo un background internazionale, rimane molto legata alla propria terra, sia dal punto di vista artistico sia per l’impegno sociale. Esperta nella lavorazione dei metalli, innamorata della fotografia e dello slogan propositivo come simbolo di impegno culturale. Di fatto è una narratrice che si serve del metallo e dei suoi derivati per interazioni ed estensioni. Numerosi i contributi e le mostre internazionali tra Oriente e Occidente. Scultrice, predilige il processo della saldatura e considera la creazione di una scultura un rituale etico ed emotivo.

OPERA IN CONCORSO

SENZA TITOLO, 2016

SCULTURA - Alluminio saldato a tig e semi-lucidato a specchio
cm 89 x 145 x 120

Potrebbe dirsi in parte metamorfica l’opera di Rosaria Iazzetta (Senza titolo, 2016) che elabora una forma vagamente antropomorfa, alludendo ad una natura ormai adulterata, inquinata, perduta. L’oggetto costruito dall’artista tuttavia, al di là della metafora e della sua equivocità formale, testimonia una suggestiva organicità visiva. Quasi a indicare che, nonostante tutto, nell’arte l’unità è recuperata, al di là del visibile, anche nei mostri che invadono l’anima.

RICONOSCIMENTI

VINCITRICE DEL PREMIO COMEL 2017

con la seguente motivazione:

“L’opera si impone per il suo assetto fortemente allusivo di una natura antropomorfa e per la sua specifica e suggestiva lavorazione del metallo, modellato e saldato con grande perizia, fino a realizzare una forma originale e umanizzata in senso drammatico e avveniristico.“

Intervista di Rosa Manauzzi

Vive e lavora a Mugnano di Napoli. Docente di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli, dal 2016, con esperienza pregressa quasi decennale di insegnamento accademico a Catanzaro e Frosinone. Unica vincitrice italiana della borsa di studio del Ministero degli Affari Esteri Italiano per artisti, viene finanziata dal governo giapponese (Monbusho) per specializzarsi in scultura in ferro alla Tokyo University of the Arts.

Pur avendo un background internazionale, rimane molto legata alla propria terra, sia dal punto di vista artistico sia per l’impegno sociale. Esperta nella lavorazione dei metalli, innamorata della fotografia e dello slogan propositivo come simbolo di impegno culturale. Di fatto è una narratrice che si serve del metallo e dei suoi derivati per interazioni ed estensioni. Numerosi i contributi e le mostre internazionali tra Oriente e Occidente. Scultrice, predilige il processo della saldatura e considera la creazione di una scultura un rituale etico ed emotivo.

Rosaria Iazzetta nasce a Mugnano di Napoli. Quando si avvicina all’arte per la prima volta e qual è il percorso che la porterà a diventare artista e docente di scultura, presso l’Accademia di Belle Arti?

Beh, non credo che ci sia stato un momento esatto ma un’esigenza istintiva, come l’amare o il mangiare. Avevo poco meno di dieci anni, e sentivo la necessità di assemblare e smontare cose. Ogni oggetto che mi veniva regalato veniva trasformato, seppure perdeva la sua utilità iniziale. Ho visto pochi musei da ragazzina, cosa che mi ha addolorato in seguito, ma avevo però la fortuna di vivere all’aria aperta, per cui a quindici anni ero certa che avrei fatto la contadina da grande. Ho sempre adorato la fatica fisica. Pensavo che avrei fatto la corritrice alle volte, perché adoravo lo sforzo di superare il tempo nella corsa. Ho compreso che non avrei potuto seguire i consigli che mi indicavano le scuole magistrali come percorso. Mostravo nei quaderni una necessità creativa di invadere lo scritto con forme e colori. Il Liceo e poi l’Accademia. Non avrei potuto scegliere diversamente gli studi, perché forse era l’unica barriera di contenimento ad un fervore che sentivo dentro, come un misto di estasi derivata da curiosità di conoscenza e sperimentazione manuale. Non credo che abbia mai deciso di essere artista in effetti. Ho raccolto negli anni un numero indefinito di materiale, che sperimentavo ed assemblavo, fino poi ad integrarlo e lavorarlo a renderlo col tempo, funzionale esteticamente. Due momenti sono stati invece folgoranti per la consapevolezza della scultura come mezzo espressivo, e di determinate forme come linguaggio: la visione di una nave in un bacino di riparazione, fuori dall’acqua quindi, al Porto di Genova a 17 anni, e la visione dal vivo del Guggenheim di Bilbao in Spagna, di Frank O. Ghery a 21 anni. Non ho dormito per intere settimane. Come se quelle scene mi appartenessero, ma non le avevo mai viste in esterno prima. Ho scelto di diventare Professore, quando ho avuto la consapevolezza di essere capace di dare in parte, quello che mi sarei aspettata di ricevere quando ero io studente in Accademia. Non sono certa di esserci riuscita, ma lavoro avendo sempre questo presente nella mia mente. Priorità ai giovani, alle loro espressioni. Sono leve di rivoluzioni e risoluzioni in questi momenti catartici.

L’installazione attraverso banner e fotografia ha caratterizzato il suo impegno civile per diversi anni, e continua tuttora a riflettersi nel suo lavoro, con progetti dedicati a zone periferiche e scuole. Tra le frasi utilizzate nei banner, sempre a forte impatto emotivo, ne ha scelto una di Paolo Borsellino: “A fine mese, quando ricevo lo stipendio faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato!”, e altri messaggi che invitano a riconoscere i sentimenti e i valori come parte di una necessaria corrispondenza empatica con il territorio. Alle volte, enormi, gialli, visibili da grandi distanze. Ha mai avuto difficoltà ad installarli sugli edifici pubblici? Qual è stato l’atteggiamento di chi osservava la preparazione dell’installazione. Ha mai avuto paura?

Certo ho avuto paura parecchie volte, e anche minacce in alcune istallazioni. Il fatto è che mi sono sempre lasciata guidare da un motto: “Fare finta di niente, uccide la gente!”. Se avessi ceduto mi dicevo, avrei smesso di credere in un futuro diverso; tutte le indignazioni che avevo non avrebbero avuto senso, e sarebbero diventate frustrazioni. In molti hanno preferito andar via, o si sono ammalati, cedendo al sopruso o all’abuso. Non ero, come allora ovviamente anche oggi, disposta a cedere. Avvertire un disagio, specialmente quelli palesemente irritanti e violenti in Campania, credo che sia un’attitudine ancora necessaria a molti, ribellarsi a questo, è ancora un atto raro, che non trova purtroppo troppi seguaci. Io, nel mio piccolo, non credo che debba rinunciare all’idea di legalità e di giustizia sociale, ma continuare a crederci, tenendo sempre a mente il senso comunitario di tali decisioni ovviamente.

Ritorno del bene, 2011 – Light-box, alluminio

L’oggetto metallico che crea sotto le sue mani e i suoi strumenti, acquista pienezza e mantiene allo stesso tempo spazi da colmare, quasi come se avesse il timore di nascondere, occultare. Le opere spesso preservano un vuoto rispettoso da riempire con la realtà circostante, di chi la vive o la intuisce. Da dove nascono le forme delle sue sculture?

Molte di queste forme, sono andate definendosi negli anni, con una ricerca e uno studio costante. Raramente ho intrapreso forme che non fossero studiate. La gestazione per una scultura è forse la parte più importante. Capire dimensioni, materiale e staticità va di pari passo con il valore che dovranno portare in sé. Ho sempre desiderato, che queste forme raccontassero dei disagi, o le dinamiche che conosciamo ma non sono visibili ad occhio nudo. L’obiettivo è stato dare una forma, tentando di non diventare ammiccante, ma tagliente, rappresentare uno stato precario a tratti, per la permanenza sempre su tre piedi; in un solo caso su quattro piedi. Ho eliminato il concetto di base, in assoluto, perché per quanto antropomorfe, sempre rivolte verso l’alto, ad un sogno di leggerezza, resistono il più possibile, raccontano alcune volte con curve, o rettilinei di acciaio o alluminio, l’indigestione politica e sociale. I vuoti, alle volte visibili e alle volte no, sono la costante in queste sculture. È lì che l’occhio dello spettatore si posa sempre. Quel cambio di forma, quella definizione non perfetta e nemmeno lineare, per spingere a riempire il vuoto, con il restante racconto del disagio, che lo spettatore si porta dentro. Voglio che siano delle sculture empatiche, ancor prima di essere attraenti, per lucentezza e materiale, al fine di creare una vicinanza con chi le osserva; in fondo le sculture raccontano gli stati di rabbia che tendiamo a smorzare, e che involontariamente, a seconda degli stati di evoluzioni dell’anima di chi le osserva, tendono a placare o a indignare.

L’opera Senza titolo (2016) ha vinto il Premio COMEL della giuria della VI edizione con la seguente motivazione: “L’opera si impone per il suo assetto fortemente allusivo di una natura antropomorfa e per la sua specifica e suggestiva lavorazione del metallo, modellato e saldato con grande perizia, fino a realizzare una forma originale e umanizzata in senso drammatico e avveniristico.” Si tratta di una scultura spaesante, piegata alla sinuosità della lavorazione, così rispondendo al titolo della mostra collegata al Premio. Nella presentazione dell’opera afferma che è “parte integrante di un lavoro narrativo estremamente importante e urgente”, dedicato all’ambiente che ci circonda e all’etica ecologica. Vuole parlarci di questo progetto narrativo?

Sì. L’opera in questione, fa parte di un progetto più esteso, che vede altre due sculture prender parte ad una installazione. L’opera, realizzata in occasione della mostra “sandwich”, inaugurata alla galleria E23 di Napoli lo scorso anno, è stata tutta strutturata sullo scempio perpetrato nelle aree agricole e periferiche della Campania. Per l’appunto il titolo della mostra fa riferimento al sistema di interramento a strati dei rifiuti tossici, adottato dai malavitosi e raccontato da Schiavone, uno dei pochi boss di camorra pentiti. L’opera consta, di questi tre corpi in alluminio che per posizione e forma, circoscrivono un albero di alloro ormai senza vita. Se nell’aria che tagliano per le forme, tentano di arginare il dramma, sono comunque vibranti di uno stato di corruzione tale, che cedono all’abuso, da difensori diventano usurpatori, da controllori a esecutori materiali. I corpi, mancanti del tronco superiore, della testa e del cuore, sempre sistemate su tre gambe, in comune hanno una convergenza verso il tronco di una gamba. Le gambe, seppure a diverse altezze si allineano alla forma, ed eseguono senza fiatare, con intransigente abuso l’interramento e le procedure di morte.

Cavallo di ritorno, 2007

La permanenza in Giappone, già dal 2000, con la prima borsa di studio vinta, offerta dalla Regione Campania, per il miglior progetto di tesi accademica, e le successive esperienze di studio, presso il Dipartimento di Scultura, e di insegnamento allo Shinkokurizu Opera City e l’Istituto Italiano di cultura di Tokyo, come docente di Lingua Italiana, le hanno dato la possibilità di acquisire lingua e cultura di un Paese molto lontano. Oltre questi dati, per nulla scontati, che ci incuriosiscono, per il suo arricchimento è stato più importante sottolineare la diversità tra l’Italia e il Giappone o la somiglianza? Su quale versante ha focalizzato la sua ricerca?

Diciamo, che il Giappone è stata un’esperienza folgorante per me. Un sistema di leggi e una modalità di comunicazione singolare applicati ad una intera esistenza napoletana, hanno creato contrasti nella mia anima, ma straordinarie sorprese. Più di tutto, lo studio al Dipartimento di Scultura della Tokyo University of Arts, ha definito la materia ferro nella mia scultura. La strutturazione universitaria suddivisa per settori, ha specializzato il rapporto con questa materia, fino a renderla significativa all’interno del mio percorso lavorativo. È chiaro che le vite sociali e culturali dei giapponesi e degli italiani sono completamente diverse, allora come oggi, ma ho sempre notato che la maggior parte delle vicende sociali che avvenivano in Oriente, poi dopo anni, stavamo affrontandole anche noi in Italia. Nelle diversità, alla quale più o meno tutti siamo attratti, troviamo delle similitudini interiori, che certamente ci permettono di evolvere. Io, più che di evoluzione, perché è presto per dirlo, parlerei dell’acquisizione di nuove visioni. Gli occhi sono rimasti gli stessi, mio malgrado, ma per esempio riconoscere il senso etico tra alcune stranezze, in Giappone, non dover desiderare cose di altri, che non posso permettermi, ha guidato in maniera sempre più forte, il concetto di etica mancata in Italia e nello specifico in Campania. Quella diversità, è stata necessaria per comprendere a pieno le cose a cui stavo rinunciando in prima persona, e a cui tutti stiamo rinunciando. È chiaro, che posti perfetti non esistono. Come termina il Film “Tokyo Pop” del 1988 di Rubel Kuzui, dove la protagonista cantante rock straniera arriva a Tokyo, e si sente confusa, pur vivendo una straordinaria esperienza con il nuovo compagno cantante giapponese: solo andando in posti dove non sei mai andata, comprendi chi sei veramente! Ovviamente se poi di certi posti ti senti parte, questo è un altro discorso. Comunque, è un buon motivo per costruire un confronto e un’analisi sul lavoro che porti avanti, in maniera costante.

Nelle sue creazioni, sono ben visibili le saldature. Sembrano quasi cicatrici di cui vantarsi. Le sue sculture disturbano, sembrano creature di altri pianeti pronti a muoversi di vita propria, l’impatto è immediato e “provocante”. Abbellite e lucidate ricordano molto l’antica tecnica giapponese del Kintsugi (“riparare con l’oro”). In genere è la ceramica a subire questo processo di risaldatura e viene poi impreziosita, nella venatura, con un filo di polvere d’oro, d’argento o rame. Anche lei a volte risalda e impreziosisce. E soprattutto, sempre riprendendo il concetto del Kintsugi, l’imperfezione di qualsiasi cosa offre forza e fascino, rispetto a una pretesa perfezione. Ogni cicatrice è insomma la fessura in cui la luce passa e trasforma, fortifica, salda. Nelle cicatrici di Burri c’è insieme sofferenza e bellezza. Nelle cicatrici delle sue sculture c’è dinamismo e resistenza.

Diciamo che trovo prioritario lasciare il segno nei pezzi che si saldano gli uni agli altri. Come le comete che si agglomerano, come le particelle che si sommano, o le cellule che vivono di vita propria e poi insieme creano un unico corpo o un unico organismo. Ecco, credo che quando riguardiamo il nostro ombelico, possiamo intuire dove eravamo collegati e da dove prendevamo nutrimento, ma non possiamo vivere quell’esperienza, c’eravamo, ma troppo piccoli per comprendere, quel miracolo. Rimane quel segno, al quale anche la moda ha dato un significato importante, senza più essere dettaglio, ma parte di un tutt’uno. Io vorrei, che le mie opere fossero viste in questi termini: segni di costruzione, dove nessuno era con me, mentre le lavoravo, mentre il calore della saldatura le metteva insieme, ma che ne possa intuire la mia gestazione da quei segni. Nei segni non credo che si debba leggere il disagio, perché a quello ci pensano le forme; piuttosto indicano l’appartenenza. Sentirsi parte.

Rosaria Iazzetta nel suo studio

Ci sono i giusti e ci sono i camorristi, ci sono i cittadini impegnati (nel sociale, nella cultura, in politica) e ci sono i vivi-morti, per riprendere una sua espressione. I primi verranno ricordati, i secondi spariranno. Così vorremmo che fosse, pare invece che l’oblio per chi danneggia la società non sia così scontato e immediato e, d’altra parte, è invece certo che molti ambienti culturali e artistici vivano ancora in torri d’avorio inaccessibili. Cosa si sente di dire a chi fa arte, a chi la promuove, a chi vuole diffondere cultura? Quale strategie dovrebbero attivare per raggiungere dei traguardi culturali?

C’è da fare una bella distinzione tra i traguardi culturali camuffati da manovre e interessi politici, e traguardi culturali dove l’obiettivo era veramente sostenere la cultura. La linea di queste due modalità è sottile, e molte delle volte l’una straripa nell’altra. Ho conosciuto realtà radicate sul territorio che hanno costruito una rete culturale, senza risorse, se non quelle umane, dagli innumerevoli miracoli sociali; e altre volte sperpero di denaro da far rabbrividire chiunque, in eventi che di culturale non avevano assolutamente niente. È necessario, a mio avviso, rendere partecipi sempre le comunità locali. La radicalità di un progetto dipende dall’integrazione e coinvolgimento degli abitanti. Si ricordi che anche un’opera commissionata a Richard Serra, è stata ubicata altrove, quando gli abitanti non hanno voluto una parete in ferro come inquilino nella piazza! Relazionarsi poi, con referenti amministrativi o/e promotori dall’alto profilo etico. Non sempre strutture di successo, hanno valori etici, e scendere a compromessi è sempre poco produttivo a lungo termine, se si pensa che il torna conto è qualche articolo di giornale in più, che se tutto andrà bene dopo due anni lo stesso giornale sarà usato per imballare i bicchieri di vetro in un trasloco, o riciclato in cartaia, se non bruciato per avviare il fuoco in un camino! Agli artisti, altrettanto, invito a non cedere. È molto facile abbandonarsi ad altro, specialmente quando si è circondati da familiari e cari che hanno in prima persona soffocato la propria creatività. Non c’è cosa peggiore, all’opposto, di artisti che, standardizzati dal sistema, costruiscono manufatti che non rispecchiano più il volere della propria anima ma del sistema economico. È necessario, a mio avviso, rimanere dentro sé stessi e collegati a ciò che si produce perché è quella la nostra estensione, una parte di noi, che non vorremmo che nessuno maltrattasse o denigrasse, ma anzi che fungesse da supporto per altri in cammino per la verità.

Anticipando di molto la società liquida di Bauman, Pirandello scrisse a fine del 1800: “Crollate le vecchie norme, non ancora sorte o almeno stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività di ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l’estimativa. Il campo è libero da ogni supposizione. L’intelletto ha acquistato una straordinaria mobilità. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile… Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata. Slegata, senz’alcun principio di dottrina e di fede…” (settembre, 1893 in “La nazione letteraria” di Firenze, “Arte e coscienza d’oggi”.) La sua arte nasce o comunque si lega moltissimo alla funzione sociale. E, libera dall’ideologia, tuttavia si nutre di punti fermissimi: risveglio della coscienza, legalità, partecipazione civile. Come pensa di inserirsi quindi nella società liquida odierna che sembra disinteressata a tali valori che sono anche estetici?

Certamente io non posso chiedermi come mi inserisco, anche se lei mi chiede il come, perché mi inserisco per necessità, più che per ragionamento. I miei valori estetici ad esempio, non sono nel sistema dell’arte, ma non per questo smetto di creare e narrare aspetti sociali, ma anzi lavoro di più per ricercare strumenti e sistemi alternativi, esterni o stranieri per continuare ad operare e diffondere il mio dire.
La mancanza di determinati valori è per me terreno fertile sulla quale operare, ossia non credo che io abbia il potere di riportare determinati valori, perché non ho questi requisiti, ma la mia necessità di creare tenta di proporre un uso sociale, una condivisione al fine di invitare ad una riflessione su questioni di estrema importanza. Ovviamente, i miei prodotti non rientrano in un bisogno primario, ma oggi in una situazione in cui si è dimenticato che il respiro è la cosa più importante e non il successo personale o i beni materiali o la felicità, io che realizzo sculture provo a preoccuparmi del mio respiro, perché operando mi sento viva, e mi arriva ossigeno, e semmai pongo uno spunto di riflessione a chi volesse conoscere storie di verità.

È anche autrice di un Libro fotografico, un modo per creare arte cercando un rapporto più diretto con il fruitore. La mala tolleranza: La felicità vince quando la speranza e la coscienza smettono di essere latitanti (2011). Ha affermato che l’abitudine al bello aiuta a riconoscere i mostri quando questi appaiono. Da qui la funzione dell’arte come strumento di bellezza e di conoscenza, ma anche di svelamento, come appunto accade nel libro, in cui si riportano testimonianze crude di persone entrate a contatto con la malavita (come vittima e/o come testimoni).

Ero di ritorno dal Giappone, e sentivo la necessità di raccogliere le testimonianze di quello che tutti conosciamo ma non diciamo. Di parlare della verità! La fotografia è poi stata per me uno strumento anche importante di rivelazione del vero, e così mettendo insieme foto e testi ho creduto opportuno dare una narrazione più intima e diretta, a quello che la camorra quotidianamente attua, e alla quale tutti noi siamo costretti a rinunciare. L’unica pretesa, che il testo si propone è quello di dare anche speranza. Difatti, il testo termina con delle pagine bianche, dove sono scritte le storie di persone che la camorra l’hanno combattuta, senza arrendersi, perché hanno creduto nella lotta, il miglior strumento sociale, per il benessere collettivo dell’anima.