MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA 2015

Intervista ad Alessandra Baldoni

di Rosa Manauzzi

Nasce nel 1976 a Perugia, dove vive e lavora. Fotografa da quando aveva otto anni; scrive da sempre e trova nella parola l’ossatura del suo lavoro. Usa la macchina fotografica come un taccuino per annotare sogni, accadimenti e visioni. Le sue foto sono il risultato di ‘piccole sceneggiature scritte per uno scatto’. Mette in scena veri e propri set, costruisce un mondo metafisico ed incantato, cerca di raccontare i luoghi dell’anima, quelle geografie esistenziali in cui ognuno può riconoscersi. E stata tra gli artisti selezionati per il XIV ‘Premio Cairo’ presso il “Museo della Permanente”, Milano.

La metamorfosi sembra essere un’impronta assai prevalente nelle tue opere. Dalle pareti che il tempo trasforma ai corpi in fieri che immortali nella loro transitorietà. Di recente hai partecipato alla mostra “Idrophilia” che forse ha ulteriormente stimolato questa tua ricerca. L’acqua come elemento vitale e in cui la vita continuamente nasce e si trasforma. Puoi parlarci di questa esperienza artistica?

Amo raccontare il cambiamento e la trasformazione, nei miei primi lavori ho attraversato il sentiero magico della favola e messo in scena sovente incantesimi e sortilegi. Mi piace vedere “cosa succede” quando qualcosa scombina la consuetudine ed incendia l’abitudine, quando la tessitura del reale si sfarina e dentro le crepe della storia si insinuano ombre e possibilità.
“Idrophilia” è un progetto curato da Ilaria Margutti che mette in relazione venti artisti con l’elemento vitale dell’acqua in un luogo speciale: la “Caserma Archeologica”, uno spazio che dall’abbandono e dal silenzio è diventato un contenitore di possibilità, un cuore pulsante, un crocevia di intenti e talenti. Oltre ad un mio progetto esposto – “Ti rubo gli occhi”- c’è la mostra finale del mio corso di fotografia narrativa con tutti i lavori dei miei ragazzi (studenti dei vari licei di Sansepolcro) e posso dire con orgoglio che la vera emozione sono stati loro. Vederli mettersi in gioco, rischiare e raccontarsi, pensare e sentire la fotografia ed impararne la cura- che sempre di cura si tratta quando c’è l’arte di mezzo- è stato per me immergermi in qualcosa che mi ha segnata e commossa. Ecco, voglio parlare di questa acqua di commozione, di questo mare dolcissimo che ha ridefinito gli orizzonti. L’acqua si insinua nelle fessure, è potente, arriva e porta nascite e primavere. L’arte è fatta di condivisione è relazione, è seme, polline che germoglia negli occhi e nei respiri.

Qual è stata la tua formazione artistica e quali sono i tuoi artisti/le tue artiste di riferimento?

Non ho una formazione accademica in senso stretto, ho fatto il liceo classico e studiato filosofia. La letteratura è il mio più grande nutrimento, le mie emozioni sono sempre legate alla pagina. I libri sono una sponda, un puntello, una mappa. Sono il filo a piombo sul mondo. La poesia in particolar modo è salvezza, è parola intera e integra, antidoto. Quando sono in difficoltà è lì che mi rifugio, è il luogo del medicamento e delle risposte. Dalle parole nascono e si sollevano le immagini, sono l’innesco, la scintilla della creatività. Sono molti gli artisti che mi hanno segnata e a cui faccio riferimento, da Mario Giacomelli a Duane Michals, da Diane Arbus a Sophie Calle. Ma anche Louise Bourgeois, Annette Messager, Regina Josè Galindo, Maria Lai. La lista sarebbe davvero lunga, si arricchisce e amplia nel tempo… per fortuna c’è ancora tanta meraviglia da attraversare, terre da conoscere e respiri da consegnare allo stupore.

Partecipi all’Expo di Milano per il progetto “Cibi condimentum esse famem – La fame è il condimento del cibo”. Come hai elaborato l’idea e da quali premesse (letture, altre esperienze artistiche) personali hai scelto di partire?

Sono stata davvero entusiasta quando mi è arrivato l’invito a partecipare al progetto “Cibi condimentum esse famen”: mi piace molto l’idea della fame intesa come spinta e desiderio, come una passione che si fa bisogno e muove verso una ricerca. La difficoltà era cercare di affrontare l’argomento da un punto di vista inedito, trasversale. Come spesso accade il colpo di fulmine è arrivato dalla letteratura. Nelle mie incursioni tra libri saggi e miti, mi sono imbattuta in un racconto di Kafka, “Un digiunatore”, che mi ha rapito totalmente: è stato come essere travolti da una rivelazione. Da quelle pagine incredibili, attraverso un processo creativo che mi ha fatto scegliere i simboli e i modi della narrazione ma anche i luoghi i volti e gli oggetti di scena, sono nate le sei immagini che compongono il progetto. La serie fotografica “Un digiunatore” riflette sulla vocazione e la disciplina necessarie nell’arte, è la storia di un’astinenza portata alle estreme conseguenze. La sottrazione dal cibo, la privazione – metafora dell’arte e della scrittura – sono il terreno su cui il digiunatore si misura, il luogo in cui mostra al pubblico la sua dedizione assoluta ed inevitabile al proprio talento. Il digiunatore, dopo un iniziale successo di pubblico, finirà ignorato e dimenticato in un circo ma non smetterà di digiunare e si spingerà all’estremo, fino alla morte. Ho sentito molto personale questo seguire il proprio talento e la propria disciplina fino all’estremo, questo non tradire mai il proprio fuoco sia nei momenti di gloria e successo sia nei momenti in cui il pubblico ti abbandona.
Come a dire che non c’è un’alternativa, nessun piano b. L’arte, nel bene e nel male, è tutto – è una scelta che ti sceglie e ti porta via.

In questa casa non c’è nessuno

A partire dalla tua presenza all’Expo, quale responsabilità senti di avere come artista a livello sociale?

L’artista ha il compito di prendersi “cura” di ciò che spesso, distratti o superficiali, abbandoniamo e lasciamo indietro. L’arte è un seminare incessante, un incontro con l’altro e il diverso. Racconta e cerca di entrare nelle fessure dell’anima, è una possibilità di avere antidoti, una terra nuova dopo un naufragio. Antonia Pozzi, poetessa che amo molto, ha scritto dei versi che dicono esattamente quello che io provo, che mi somigliano…questa idea dell’arte e della poesia come di qualcosa che seppur fragile ci tiene in equilibrio, si fa ponte sopra gli abissi ed i dolori: “Vorrei che la mia anima ti fosse / leggera, / che la mia poesia ti fosse un ponte, / sottile e saldo, / bianco / sulle oscure voragini / della terra”. Spesso davanti ad un’opera siamo in difficoltà… qualcosa ci tocca, ci fa male, è come sale su una ferita. A volte ci commuove, racconta qualcosa che ci appartiene e che noi per paura o confusi dalle mille voci che ogni giorno in ogni momento ci chiamano urlando- avevamo messo da parte… allora in noi riaffiorano idee e sentimenti che ci rendono diversi, spostano la nostra visione (a volte troppo “corta”). Come artista faccio il possibile per raccontarmi con onestà e coerenza, cerco di guadare le acque scure, cerco di condividere e scambiare… sono una “cercatrice d’oro”, il setaccio è l’arte. Siamo estremamente fragili e vulnerabili, l’arte ricama splendore sulle ferite, è il bicchiere d’acqua per la notte, quello accanto al comodino che colmerà la sete qualsiasi sia il buio da cui proveniamo.

Sei stata scelta per la collettiva “Leggero come alluminio”, dopo una selezione internazionale che ha deciso i tredici artisti dell’Unione Europea per la partecipazione al premio COMEL Vanna Migliorin 2015 – Arte Contemporanea, a cui la mostra era collegata. E hai ricevuto una menzione speciale da parte della giuria dei critici d’arte, che ne hanno riconosciuto la valenza partecipativa diretta al pubblico e la leggerezza poetica al richiamo della memoria. I tuoi misteriosi scrigni aprono mondi inconsueti che coinvolgono lo spettatore. Il titolo “I need protection” ha conferito un appello ai piccoli mondi che hai costruito. All’interno un’immagine, un dettaglio, un sentimento da condividere o da richiudere, all’esterno una richiesta su cui riflettere: un bisogno di protezione. A chi è riferito? Al lavoro dell’artista e ai suoi mondi da tutelare? Al visitatore che si immedesima e sceglie un quadro in cui insinuare il proprio sentire?

Confrontarmi con un metallo come l’alluminio per produrre l’opera per il Premio COMEL è stata davvero un’esperienza emozionante perché mi ha permesso di mettermi alla prova e conoscere cose del tutto nuove. L’idea degli scrigni mi è venuta riflettendo sul bisogno di protezione che ci attraversa da sempre, ognuno di noi ha piccoli rituali, oggetti portafortuna, cose da fare o non fare per scongiurare pericoli o far avverare qualche richiesta. Credo che sia la protezione ciò che più ardentemente cerchiamo, un nido, un abbraccio -quel rifugio che ci permette di essere nudi e fragili, di non nasconderci, di essere visti nelle ombre e nella luce, di essere amati da uno sguardo che tutto contenga. La riflessione nasceva poi dall’accorgermi che ci sono grandi paure e desideri impronunciabili (parole che accerchiamo di silenzio perché il solo pronunciarle ci spaventa) che però sono come un marchio, un segno, una corda alle caviglie che ci blocca e tiene fermi. È difficile lasciarli andare perché diventano una parte di noi, sono come l’ombra attaccata ai piedi. Allora ho avuto l’idea di prendermene cura io, di metterli via in una specie di archivio sentimentale. Tredici persone mi hanno affidato le loro parole, piccole frasi e poesie –sigillo infuocato delle loro paure e dei loro desideri più grandi- così che io potessi costruire delle piccole teche e custodirle come fossero reliquie. Questo ha reso loro “più leggeri”, liberi perché consapevoli che qualcuno avrebbe avuto cura delle loro parole. Parole alle quali poi ho associato delle immagini poetiche, delle piccole metafore visive. Sono nati questi tredici libri speciali, tredici segreti, misteri raccontati in bianco e nero. “I need protection” è un lavoro che nasce per raccogliere, archiviare in modo artistico e avere cura, invita lo spettatore ad avvicinarsi, leggere, aprire gli scrigni e lasciare che l’emozione racconti e risuoni… il vetro che vela ma lascia intravedere diventa uno specchio che porta alle proprie emozioni e paure. È la trasparenza che mi interessa, il riflesso che diventa acqua in cui immergersi, riconoscersi.

Anche io cresco dal fondo di un lago colmo di pianto

Riprendendo la parte conclusiva della presentazione del premio Cairo 2013, su di te leggiamo: “Il fuoco per Ingeborg Bachmann, quello stesso fuoco che l’ha vista bruciare nella sua elegante casa di via Giulia a Roma nel 1973, l’acqua, causa del suo annegamento suicida per Virginia Woolf (Rodmell,1941) ma anche elementi cari alle poetesse in vita come il ghiaccio, ad esempio, per Antonia Pozzi. Quelle della Baldoni sono di sicuro immagini dall’indiscusso valore concettuale, immagini forti e a tratti scioccanti, immagini che gridano vendetta. Vendetta per una poesia negata, per una, cento, mille voci imbavagliate.” L’arte secondo te è più vendetta (urlo, immagine forte, urto) o più equilibrio (ovvero trovare un nuovo ordine in grado di sovvertire quello esistente)?

La serie di cui parli si chiama “Salva con nome” e proprio nel titolo credo ci sia in gran parte la risposta alla tua domanda. “Salva con nome” – oltre ad essere una citazione del titolo dell’ultima raccolta poetica di Antonella Anedda – è ciò che ci compare in uno schermo quando scrivendo non vogliamo perdere le nostre parole, è un gesto che crea un documento, un qualcosa che resta. Mi rendo conto che è un gesto che fa parte di una consuetudine e nell’abitudine spesso le parole si appiattiscono, perdono di senso e spessore. Ma se torniamo alla loro interezza ci accorgiamo che c’è un intento di “salvezza”, di tenere fermo e saldo qualcosa che altrimenti sparirebbe e si perderebbe nella dimenticanza, nella notte che scontorna ogni cosa. “Salva con nome” significa anche salvata da e per il proprio nome, è una specie di rivendicazione, di atto di presenza. Questa serie fotografica è dedicata alle poetesse e scrittrici che hanno formato il mio mondo interiore e le mia visione e a cui sempre torno quando ho bisogno di risposte. Tutte loro, queste donne incredibili, indomite e tormentate, hanno lottato per poter avere spazio e voce in un mondo secolarmente maschile; spesso hanno pagato con la loro stessa vita questa impossibilità, il silenzio cui sono state costrette. Mi viene in mente quella poesia di Alda Merini : “Spazio spazio, io voglio, tanto spazio / per dolcissima muovermi ferita: / voglio spazio per cantare crescere/ errare e saltare il fosso / della divina sapienza. / Spazio datemi spazio / ch’io lanci un urlo inumano, / quell’urlo di silenzio negli anni / che ho toccato con mano” . Ecco, questo è l’urlo di cui parlo: la vendetta è invece l’essere sopravvissute attraverso la loro arte, essersi fatte seme e germoglio, parola potente che attraversa il tempo. Sono queste le scrittrici e le artiste (penso anche a tutta una serie di fotografe che hanno attraversato il ‘900) che hanno aperto un varco, sono pioniere, esploratrici di terre mai nominate. Ed è grazie a loro che io oggi ho dei riferimenti, che ho storie in cui riconoscermi. Dire il mondo è possederlo, la parola è qualcosa di potente e magico, decide la sorte, segna i destini. A queste donne martiri e guerriere volevo rendere omaggio attraverso delle immagini nate dai loro versi, volevo ricordarle, tenere stretto forte nel pugno il filo che mi lega a loro e che attraversa e annoda il mio cuore.

Un aforisma giudaico recita: “Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – ama i racconti.” Gli esseri umani sono veicoli di ispirazioni più grandi di quanto il limite corporeo li porti a sostenere. Per questo, credo, amiamo farli uscire questi racconti, esternarli per alleggerirci di un peso ma anche di una ricchezza. Tu lo fai sia attraverso le parole sia attraverso l’arte dell’immagine e anzi sostieni che l’ossatura della tua arte sta nella scrittura. L’una non può fare a meno dell’altra?

Sono convinta che esistere sia raccontare ed essere raccontati. Siamo storie, siamo la trama che da senso agli accadimenti. La scrittura è la tessitura d’inchiostro che dà forma alla narrazione. E’ medicamento, guarigione. Scrivo da sempre – ed è vero che per me le parole sono l’ossatura delle mie immagini, ne sono il midollo. Non ne potrei mai fare a meno, dico sempre che io scrivo piccole sceneggiature per uno scatto. Ma anche in senso più lato – la scrittura è la scintilla, la carica di senso, la vena d’oro. Non potrebbe essere altrimenti. Che siano le mie parole o quelle di cui mi nutro, quelle della grande letteratura e poesia – sono comunque il pane della mia sopravvivenza e della creazione. Per me inscindibili, potenti come un abbraccio, arte e parola sono sempre connesse. Come filo ad ago per cucire e ricucire. È la carta il luogo da cui si sollevano le mie immagini, la mappa che mi porta alla messa in scena delle mie serie fotografiche.

E quali scrittori/scrittrici tornano più spesso nel tuo modo di sentire ed esprimerti?

Ho diversi amori che durano da anni come Virginia Woolf, Emily Dickinson, Cervantes – solo per dirne alcuni – e poi ci sono le passioni improvvise come Antonella Anedda, Elisa Biagini ed Agota Kristof , Patrik Modiano. La cosa meravigliosa della letteratura è che apre porte, crea incontri e connessioni. Sarebbe difficile citare tutti i nomi, ed è meraviglioso scoprire qualcosa che di nuovo emozioni e scombini, che mi allaghi il cuore e l’anima in una sorta di dolcissima prigionia.

Prossimi progetti?

Innanzitutto portare avanti i miei workshop sia con i ragazzi dei licei a Sansepolcro sia in collaborazione con le gallerie. A novembre farò una mostra a Cagliari, sarà un lavoro in bianco e nero legato alla favola, ai sogni e agli incubi… un lavoro sulle inquietudini e le ombre. Per l’anno nuovo due grandi progetti, uno riguarda la galleria Gallerati a Roma (data da definirsi) e uno ad ottobre 2016 alla Sabrina Raffagello Arte Contemporanea a Milano dedicato ai racconti di Kafka. “Un digiunatore” è stato l’inizio di un progetto molto letterario dedicato allo scrittore boemo che diventerà anche libro d’artista.

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2023-08-06T17:27:05+02:00
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