FINALISTA PREMIO COMEL 2018

Intervista a Lino Di Vinci

di Ilaria Ferri

È un artista eclettico che spazia tra le tecniche della pittura tradizionale e installazioni luminose in plexiglas. L’attivita’ di Art Designer procede in parallelo al percorso artistico favorendo contaminazioni creative tra i due mondi e accorciando la distanza tra arte e quotidiano.

Hai partecipato alla VII edizione del Premio COMEL, Armonie in Alluminio, con l’opera Metalcromie, raccontaci la tua esperienza. L’alluminio è un metallo che utilizzi abitualmente? Come è ricaduta la tua scelta su quest’opera in particolare?

Ho saputo del Premio tramite un passaparola tra artisti, e mi sono iscritto. È stata una bella esperienza. Il livello delle opere esposte e degli artisti era altissimo e ovviamente questo va a vantaggio di tutti i partecipanti. Mi è piaciuta molto l’iniziativa che promuove chi utilizza un materiale così particolare, perché credo sia molto difficile valorizzare questo tipo di opere come meritano. Anche la sede è molto bella, mi ha colpito molto l’atmosfera amichevole e l’accoglienza degli organizzatori perché non c’è stato quel clima di snobismo che a volte si trova in varie situazioni espositive. Quindi anche dal punto di vista umano è stata una bella esperienza. La scelta sul dittico “Metalcromie” è ricaduta per il gioco sui cromatismi e le forme circolari che spesso utilizzo nel mio lavoro come sinonimo di armonia, movimento e leggerezza. Essendo più pittore che scultore non utilizzo il metallo nella sua tridimensionalità, ma come superficie speculare giocando sulla grande potenzialità dei suoi effetti estetici e dei suoi riflessi cangianti, mi piace che le persone che osservano l’opera tramite questi, si ritrovino all’interno di essa in un gioco di specularità ingannevoli e seducenti.

Le tue opere sono popolate di esseri e segni che si rifanno a miti e leggende orientali, dai kappa degli stagni ai kodama degli alberi, e ai vari spiritelli che caratterizzano l’antica tradizione orale del nord Europa. Allo stesso tempo c’è una forte tensione verso gli spazi siderali, i mondi lontani, forme viventi aliene non per niente anche nei titoli di alcune opere, serie ed esposizioni tornano queste caratteristiche (Riflessioni siderali, The Invaders, Lifeforms, Univers Suspendus). Da dove attingi l’ispirazione e le conoscenze di tali mondi lontani nel tempo e nello spazio? Cosa ha influenzato queste scelte?

Gli artisti sono come spugne, e sono ovviamente influenzati da tutto ciò che vedono, a me piacciono tantissimo l’illustrazione, il fumetto, il cinema, la cultura giapponese, diversi dei miei lavori in bianco e nero per esempio rielaborano molto sia l’estetica comics giapponese che la grande tradizione mistica orientale del bianconero puro. Tutte queste cose entrano in una specie di frullatore (il mio cervello, la mia pancia) e vengono poi ritradotte nelle mie opere in funzione estetico-comunicativa. La mia ricerca sui linguaggi visivi, non sempre è di immediata comprensione, ma è per me fondamentale: incroci e contaminazioni tra illustrazione, fumetto, cinema e arte sono alla base delle mie opere. Viviamo in un bombardamento costante di immagini di ogni genere e l’arte può servire a farci fermare un attimo a riflettere e a “sentire”, cercando di mettere un po’ d’ordine armonioso e di poesia in questo caos costante. Visitando spesso mostre in Italia e all’estero, in maniera inconsapevole, sono stato affascinato da forme fantastiche e indefinibili, ma soprattutto misteriche. Alcune immagini più sono misteriose e più ci esortano a cercare di carpirne il significato, più sono sfuggenti e più ci attraggono e di questo io ne faccio uno strumento di lavoro. Nel mio atelier di Parigi aperto al pubblico sto sperimentando direttamente questo tipo di fascinazione immediata a livello di comunicazione con l’osservatore. A Parigi visito spesso il museo delle arti etnografiche Quai Branly Chirac, e ogni volta resto meravigliato dall’“impatto energetico” di sculture, decorazioni, totem di mondi esotici, mi sento pervaso da questa magia e negli ultimi anni credo di aver ritradotto nelle mie opere le ancestrali vibrazioni ricevute in questo incredibile museo. Da un punto di vista visivo, perché in effetti mi sono ispirato ad alcune forme antropomorfe, mai troppo riconoscibili e definite, che mi affascinano tantissimo; e ai motivi decorativi geometrici, perché anche nella geometria c’è un mistero formale assoluto che attrae. Non amo l’Arte che si definisce in un modo inequivocabile, do degli input all’osservatore, mi piace che poi sia lui a completare l’opera d’arte con una sua propria libera interpretazione. In questo senso vedo le analogie tra arte visiva e musica: anche se non si può carpirne il significato più nascosto nella musica si è pervasi dal benessere e dal piacere estetico che essa emana ascoltandola. Io cerco di lavorare in questo senso, e quando poi con le persone nasce la scintilla e restano profondamente attratti dalla mia opera (a Parigi questo capita più spesso con le donne che hanno una sensibilità più acuta e una maggiore disponibilità a entrare in contatto con essa), sono felice e sento di aver raggiunto il mio obiettivo, che è fondamentalmente quello di comunicare e condividere la mia personale visione del mondo.

La critica d’arte Vania Conti afferma che le tue opere esprimono “un frastuono metropolitano imploso in un vortice di silenzi”, dove il frastuono metropolitano appartiene a un occidente post industrializzato e i silenzi alla tradizione millenaria orientale. Dunque nel “tuo mondo” Occidente e Oriente si incontrano come se volessi fondere un lato scientifico e fantascientifico con uno onirico e fantastico, fatto sì di antiche leggende ma anche rivolto al futuro, allo spazio, alla conoscenza, in che modo conciliare queste due anime dentro di te, ma soprattutto nelle tue opere?

Il testo di Vania Conti si riferisce proprio a dei dipinti su metallo di grandi dimensioni; mi sono servito di un rullo nero per descrivere delle grandi “calligrafie immaginarie”, simili alla tradizione orientale, utilizzando materiali primari: smalti neri e acqua. Dunque un aspetto più originario e un modo più archetipico di dipingere su superfici che invece sono estremamente moderne come il metallo. In questo modo ho fuso, un po’ come faccio sempre, un qualcosa fatto a mano con la modernità. Mi piace partire dal gesto primario del disegno realizzato a mano perché è ciò che da calore ai mezzi più moderni. Nei lavori luminosi, utilizzo tanto il metallo e le luci led, potrei fare tutto direttamente al computer e mi piace che si crei un po’ l’equivoco che sembri tutto fatto con questo, ma invece il mio punto di partenza sono sempre la mano, il cuore, la pancia e la testa. È proprio questo che arriva a chi osserva, se i miei lavori fossero tutti completamente tecnologici non arriverebbero mai nel profondo.

Parlando di tecniche, ti sei diplomato in Pittura presso l’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova e poi hai deciso di sperimentare utilizzando supporti sempre diversi (carta, tela, legno, video, metallo, pvc, plexiglas). Come è avvenuto il passaggio dalle tecniche più classiche su tela alla creazione di oggetti di design? Anche l’utilizzo di colori si è polarizzato in lavori in “bianco e nero” e lavori coloratissimi, e hai continuato a portare avanti queste due inclinazioni, come si conciliano le due vie, ci sono momenti in cui prediligi una piuttosto che l’altra? Che rapporto c’è nelle tue opere tra arte e design?

Sono partito dai grandi artisti astratti del 900: Klee, Kandinsky, Matta, Wols, i miei padri artistici, che ho dovuto subito abbandonare per trovare un mio linguaggio, ma che mi hanno fatto capire tutta la libertà che ci può essere nel fare arte. Il passaggio dalle tecniche classiche a quelle più moderne è avvenuto dunque in maniera naturale, perché sono sempre stato molto curioso di sperimentare cose diverse. Non mi piace sedermi su una situazione, che magari funziona anche a livello commerciale, perché mi annoierei e non riuscirei nemmeno più a creare. Quindi questa curiosità dall’Accademia in poi mi ha spinto a imparare tecniche nuove e a sperimentare l’utilizzo di materiali sempre diversi, senza questa componente ludica non riuscirei mai ad esprimermi artisticamente. Arte e design nel mio caso si intersecano moltissimo. Un mio oggetto “di design” nasce con un approccio artistico legato all’istinto che viene ricondotto verso un discorso progettuale che si esplica poi in un oggetto che però, ci tengo a sottolinearlo, è sempre un pezzo unico. Riconosco e rivendico una componente estetico-decorativa in parte del mio lavoro,che rende naturale il mio “flirtare” con l’estetica degli oggetti d’uso. Non riesco mai a decidere uno stile o un tipo di colore, li amo tutti, per un artista non è possibile scegliere, come credo per un musicista le note musicali, il risultato avrebbe troppe lacune. Ci sono periodi in cui mi innamoro di un colore, in questo periodo per esempio sono in una “fase blu” e dipingo una serie di opere usando questo colore cosi legato alle profondità del cosmo e degli universi marini. Lavoro in maniera circolare sia da un punto di vista visivo, utilizzando il cerchio come simbolo di armonia, contiguità tra vuoto e pieno, della metamorfosi che c’è nel movimento, e anche come sistema di lavoro. Come dicevo in questo periodo sono nella fase blu, però poi, per non ripetermi troppo, passo ai lavori luminosi e poi magari ai dipinti in bianco e nero, colorati e poi proseguo con gli oggetti di design. Nel frattempo che si compie questo sistema circolatorio, sono maturato come persona, cambiato (e spero migliorato), e quando torno per esempio a utilizzare il blu, lo faccio con la consapevolezza di quanto imparato finora e quindi il mio lavoro, pur mantenendo la stessa radice (l’invenzione di spazi e figure assolutamente inconsuete), cambia. Dunque per me la circolarità diventa un sistema di lavoro e di vita, non solo filosofico.

Accanto alla tua attività artistica si affianca quella di design di oggetti e arredamento di interni. In realtà queste due strade sembrano convergere più di quanto si pensi, come se l’arte potesse mettersi al servizio della quotidianità, come se proprio questa possa essere una strada per avvicinare il grande pubblico all’arte, non più chiusa solo in gallerie e musei, ma da vivere nelle proprie case e nei luoghi pubblici.

È interessante l’idea che si possa provare piacere nell’osservare e toccare un oggetto d’uso. Per esempio aggiungere la luce, per me è dare una nuova energia all’oggetto o ai dipinti. Amo utilizzare l’aerografo perché dona una particolare luminosità ai dipinti dando la sensazione che questi siano accesi, è proprio da lì che è nata l’idea di creare degli oggetti luminosi. Liberare la luce che vibrava all’interno dei dipinti anche negli oggetti, è stato un po’ come liberare la loro energia. Dato che la luce determina degli stati d’animo, dà una connotazione a un ambiente (caldo-freddo ecc.), è stato per me emozionante, nel mio piccolo, determinare gli elementi che ne definivano l’aura. Entrare in casa di un collezionista o di un mio cliente e sentire subito il tipo di energia che sono riuscito a dare con le mie opere, mi dona sempre grande soddisfazione, perché sento di avere agito su tutto l’ambiente non solo in un dettaglio di questo. L’oggetto quindi ha si una funzione estetica ma in questo caso anche benefica e ciò può essere inteso come uno dei miei obiettivi, al pari della comunicazione di miei punti di vista sull’arte o sulla vita.
Il mio lavoro è sempre volutamente fuori da una realtà oggettiva e sociale, mi rendo conto che ci sono molti artisti impegnati in questo senso e li rispetto molto, ma nel mio modo d’intendere l’Arte, preferisco realizzare un qualcosa che entri più nella sfera intima delle persone, che faccia viaggiare con lo sguardo e con la mente, che porti lontano, ponendo però delle domande attraverso situazioni alternative e dimensioni parallele. Un discorso che da un certo punto di vista potrebbe portare al riconoscimento di sé stessi in contesti altri, ma in maniera molto naturale. I riferimenti alla cultura pop mi permettono di entrare velocemente in connessione con l’osservatore, soprattutto i più giovani, che si riconoscono e apprezzano molto i miei lavori. Questo mi fa pensare di riuscire ad entrare in un linguaggio popolare e comunicativo di immediato impatto, nonostante io utilizzi degli stilemi tutt’altro che semplificati, e anche se questo è un processo involontario, mi fa enormemente piacere.

Tu hai esposto in diversi luoghi, viaggiando per il mondo e decidendo poi di avere una fissa dimora a Genova e a Parigi. Per quello che hai potuto osservare come cambiano i modi di fruire l’arte, di organizzare esposizioni nei vari Paesi che hai visitato?

Parlando di professionisti del settore non ho visto grandi differenze, perché ho ritrovato un po’ dappertutto le stesse metodologie di lavoro. Quello che cambia molto invece è il modo di intendere l’arte e il modo di proporre gli artisti. I francesi per esempio si vede benissimo che sono figli (e un po’ vittime) di Duchamp, nel senso che per loro è fondamentale la narrazione e quello che riguarda la parte intellettuale e il concetto di quello che si espone. Non vorrei generalizzare, però per la mia esperienza il modo di fruire l’arte e di organizzare mostre degli italiani ha meno sovrastrutture ideologiche, si fruisce l’arte in maniera molto naturale e senza troppi schemi. In Giappone invece c’è una sintesi di queste due inclinazioni, un’accettazione più naturale dei lavori e una grandissima efficienza organizzativa e pratica sempre molto rispettosa degli artisti. Riuscire poi a capire cosa pensino i giapponesi davanti ad una tua opera d’arte è praticamente impossibile data la loro natura a volte eccessivamente discreta. Nei paesi Arabi invece hanno uno schema iconografico molto diverso dal nostro, sono abituati a sofisticatissime astrazioni tendenti alla mistica religiosa e non alla figura che a volte temono. Mentre noi occidentali utilizziamo quest’ultima per ribaltare tutti i punti di vista e la svisceriamo in ogni modo, per loro è culturalmente può essere un muro.

Come afferma Luciano Caprile le tue opere sono figlie della pittura astratta del secolo scorso, in particolare devono molto alla ricerca di artisti come Wols, Masson, Michaux e Tobey. Tu affermi di esserti affrancato da questo tipo di pittura per rincorrere con più libertà il tuo desiderio di sperimentare, di dare libero sfogo alla fantasia e al gioco, conservando comunque il turbamento dell’atto creativo. Dunque come nasce un tuo quadro? Il primo input arriva dal turbamento e si sviluppa per gioco (o viceversa) o ogni volta segue un iter diverso e imprevedibile?

Ogni volta è diverso, non mi rivolgo mai verso l’esterno, perché per me il mio lavoro è anche un’indagine verso la parte più profonda che c’è in me, una parte molto chiaroscurale. Forse l’artista è un po’ più esposto degli altri, ma una maggiore vulnerabilità può essere una possibilità, per chi come me lavora in maniera molto istintiva. Non sono un artista concettuale, forse sono un post romantico, in effetti è proprio il turbamento interiore che mi permette di dare di più, di essere più comunicativo perché poi estetizzandosi questo turbamento arriva e viene spesso apprezzato. Sono assolutamente contrario all’arte-terapia, al voler riversare su chi osserva le proprie problematiche, le proprie angosce, il proprio stato d’animo, perché secondo me questo turbamento, i pensieri funesti per quel che accade nel mondo e in noi stessi, vanno ricondotti a una forma estetica, a un punto di vista culturale, riferendosi al proprio percorso artistico, di comunicatori e di creatori di messaggi e di bellezza. Chiaramente l’Arte ha bisogno di un fuoco dal quale scaturire, quindi il turbamento è necessario a evitare l’asetticità dell’estetismo o della concettualità fine a sé stessi. Per quanto riguarda me e il mio lavoro, le opere devono nascere da questo principio emozionale e solo così arrivano più direttamente al pubblico. Delle volte alcune di queste possono risultare un po’ inquietanti, altre di meno, ma l’Arte non deve mai essere troppo rassicurante, altrimenti a cosa servirebbe?

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