VINCITORE PREMIO COMEL DELLA GIURIA E PREMIO DEL PUBBLICO 2014

Intervista a Pino Deodato

di Rosa Manauzzi

Pino Deodato, originario della provincia di Vibo Valentia, si trasferisce a Milano per studiare all’Accademia di Brera ed entra in contatto con i maggiori artisti milanesi, tra cui Spadari, di cui diventa assistente. Partecipa a importanti manifestazioni a livello europeo, e negli anni ’70 e ’80, si dedica al murales di tematica sociale. A partire dagli anni ’90 la sua ricerca artistica si veste di realismo magico che lo porta a creare dei personaggi che raccontano storie e attitudini degli uomini attraverso delicate allegorie.

Vorrei iniziare questo percorso conoscitivo dal principio, dalla prima opera d’arte che hai amato e che ti ha fatto capire che la tua strada sarebbe stata l’arte.

A mio padre venne regalato un libro dall’associazione di categoria degli agricoltori, che, oltre a dare consigli sulle tecniche agricole, presentava immagini di artisti da Leonardo a Piero della Francesca. Potevo avere 6-7 anni. L’opera che mi ricordo ancora da quel libro e che mi aveva colpito particolarmente ritraeva dei giocatori di palla di Henry-Rousseau.

Qual è stata la tua formazione accademica e come ha cambiato il tuo modo di recepire e creare l’opera d’arte.

Ho studiato subito dopo la 5 elementare presso una scuola d’arte sia le medie inferiori che superiori. In seguito ho frequentato qualche anno di scultura presso Brera a Milano. Ma quello che mi ha insegnato a creare e a recepire il mondo dell’arte sono stati gli anni in cui facevo l’assistente nello studio di Giangiacomo Spadari.

Le tue opere vengono definite metafisiche, surrealiste, oniriche… Sono definizioni in cui ti riconosci?

Di artisti surrealisti, metafisici, e onirici ce ne sono già stati e fanno parte della storia dell’arte. Non mi piacciono molto queste definizioni per il mio lavoro. Sarebbe bello che qualche storico dell’arte o curatore provasse a proporre una nuova definizione all’interno della quale collocare il mio lavoro.

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Spesso vieni ospitato in luoghi “del sapere”, come le biblioteche, luoghi poco frequentati oggi e templi sacri per chi ancora preferisce passarci del tempo. I tuoi piccoli pensatori si ritrovano quindi a far parte di questa sacralità silenziosa. Che senso ha portare un’opera d’arte in luoghi da cui il pubblico tende ad allontanarsi?

I miei piccoli pensatori piacciono a grandi collezionisti e piccoli collezionisti, a intellettuali e casalinghe, a giovani e anziani. La cosa mi rende molto felice. Uso spesso delle metafore per raccontare il mondo, e credo che sia il modo più semplice per raccontare cose complesse che riguardano la quotidianità di ognuno di noi.

Può esistere un artista senza pubblico?

Certo, può esistere. Credo che l’artista debba prima di tutto lavorare per se stesso. Non a caso è successo che tanti artisti che hanno lavorato nel silenzio del proprio studio, siano stati riconosciuti come tali quando non ci sono stati più.

La cura in una stanza

Qual è al momento l’opera da te creata che più hai amato?

È un vecchio quadro degli anni ’80. Il titolo era: Il suicidio del pittore. Avevo dipinto una rupe con un cielo bellissimo. E in quel momento ho pensato – in senso metaforico – che dopo aver fatto un’opera così bella, potevo anche buttarmi giù da quella rupe.

Negli anni ’70 in cui il clima politico era caldo l’arte ha trovato sfogo nei murales, accompagnava di fatto le marce e gli slogan. Erano tempi che richiedevano una partecipazione attiva ed esterna. Come li hai vissuti e cosa è cambiato rispetto ad allora? Non c’è oggi una richiesta globale di protesta? Perché l’arte invece si fa quiete?

Gli Anni ’70 sono stati per me e per tutta la mia generazione anni di condivisione, culturale, artistica, sociale e politica. Erano momenti complessi, belli e difficili allo stesso tempo. Io con le mie competenze e con il mio lavoro ho cercato di contribuire in modo creativo ai cambiamenti della società ai quali stavo assistendo. Rispetto ad allora le cose non sono molto cambiate. Ci sono alcuni artisti che rispondono a questa esigenza di protesta contro il sistema in modo diretto, senza filtri. C’è invece chi come me risponde alle problematiche dell’uomo contemporaneo con la poesia e un linguaggio metaforico, fatto di esortazioni a riflettere e a trovare soluzioni per vivere in modo armonico con il mondo e le cose ci circondano.

Qual è la posizione dell’Italia oggi nell’ambito dell’arte contemporanea? C’è ancora un’Europa ammaliata dall’arte italiana? (Da quella attuale intendo).

Per quanto riguarda l’arte contemporanea italiana penso si pecchi di esterofilia. Tutto quello che viene da fuori sembra sia più importante. Sarebbe ora invece di valorizzare gli artisti e l’arte italiana, della mia generazione, di quelle passate e di quelle future.

Cosa consiglieresti oggi ad un giovane che vuole intraprendere la carriera artistica? Si possono conciliare necessità del vivere quotidiano e libera espressione artistica?

Consiglierei di informarsi su quello che succede oggi nell’arte contemporanea. Andare alle mostre, informarsi sui giornali specializzati, viaggiare se possibile e lavorare tanto. Si possono conciliare le due cose, anche se è difficile. L’ideale è trovare un lavoro che sostenga l’attività di artista, almeno agli inizi. Si può vivere solo di arte, ma questo lo decide il mercato dell’arte. Se il mercato non risponde, bisogna trovare sostentamento in altre attività, meglio se affini all’arte.

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