FINALISTA PREMIO COMEL 2015

Intervista a Laura Cristinzio

di Rosa Manauzzi

Nel 1969 si diploma in scultura all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Collabora nel 1999 con la Robert Gordon University di Aberdeen (UK) e ha fatto parte del gruppo ‘Artesign’. Nel 2000 lavora per Sotheby’s a Londra e continua l’attività di scultrice, anche con grandi opere a scala urbana, fra cui la stele dedicata a Pasolini a Roma. Nel 201 2 partecipa alla Biennale di Venezia. Adopera fili elettroluminescenti e materiali industriali perdarvita a performance con il metacrilato, elemento significativo nelle sue installazioni. Espone in Italia e all’estero.

La scultura sembra essere il tuo ‘progetto’ artistico preferito. Lavori i metalli, la pietra viva, le materie plastiche. Quali tra questi materiali è più vicino al tuo modo di sentire? Quale ti fa percepire più fortemente l’opera creatrice?

Agli esordi le materie classiche, fusioni, marmo, pietra; poi sperimentare le materie industriali è stato importante e fondamentale. I metacrilati trasparenti, i polivinili, dal 1994, sono quasi sempre presenti nei miei lavori. Mi piace accostare opaco – trasparente, acciaio corten-metacrilato rosso fluo, specialmente per le grandi opere. Ultimamente ho lavorato l’alluminio e scoprirne la sua leggerezza accoppiata alla trasparenza del metacrilato mi ha intrigato molto.

Le tue opere sono spesso di grande dimensione. È la cura del dettaglio che ti porta a preferire la grandezza o l’idea di diventare parte di uno spazio occupandolo in modo visibile?

Una delle caratteristiche fondamentali dell’arte ambientale è di riuscire a coinvolgere, in maniera attiva, lo spettatore e di creare una relazione con lo spazio in cui le opere d’arte s’inseriscono, dando vita ad un ‘progetto armonico’. Di conseguenza nasce, per mano dell’artista, un’azione diretta sui paesaggi e sullo spazio macroscopico dell’ambiente naturale, su cui intervenire, non solo per una finalità ornamentale o edonistica, ma principalmente per restituire il senso di una presa di coscienza dell’azione umana su spazi che possiedono un certo ordine naturale e che da tale intervento saranno modificati.
Nel rapporto uomo-natura, per l’artista si realizza il desiderio di far ritorno, ove possibile, all’oggetto naturale o, perlomeno, di allontanarsi dall’ambito artificiale dell’urbano per operare sul paesaggio con i suoi stessi elementi e con adeguate materie. Il mio intento è quello di assecondare l’idea di un’arte che si traduca in una concreta assunzione di responsabilità nei confronti della natura.
L’opera nasce da un progetto che ha in considerazione il “senso del luogo”, questo è il punto fondamentale, è quindi il senso del luogo che determina l’opera.

Già ad un anno dal Diploma presso l’Accademia di Belle Arti, entri nella scena nazionale e internazionale. Avevi quindi maturato il modo di presentare, meglio dire comunicare, la tua idea di arte. Qual è stato il processo che ti ha aiutato ad accelerare la tua produzione oltre i confini?

Al terzo anno di Accademia il maestro Alfio Castelli mi lasciò libera di esprimermi oltre i canoni figurativi imposti dal programma ministeriale. Mordevo il freno come si suol dire e lui l’ha capito presto; da quel momento il mio vero ed unico modello è stata la natura e l’osservazione attenta e profonda dei volumi dei territori che attraversavo.

Nel 1980 sei presente alla Biennale d’Europa a Strasburgo e ricevi il premio per la scultura. Da qui Parigi, Bonn, Siviglia, Tokyo, una presenza in zone geografiche diversissime in cui hai portato un’impronta sicuramente ben definita ma che forse ti hanno anche dato qualcosa in cambio. Quanto è stato importante ‘uscire’ dall’Italia e anche dall’Europa? E quanta Italia pensi di aver portato con te da donare nelle sedi d’arte in cui hai esposto?

Le infinite testimonianze archeologiche che ancor oggi emergono da un paesaggio entrato nell’immaginario europeo ormai da tanti secoli, riattualizzano quotidianamente il nostro rapporto con le civiltà antiche. Il Vesuvio, defilato sullo sfondo, entra fisicamente e metaforicamente in ogni immagine del passato. Ho portato tutta questa energia “sommersa” che da sempre percepisco (a pelle). Ho in cambio ricevuto un grande rispetto e stima per la mia dedizione all’arte e per la capacità di comunicare il mio sentire con tutta me stessa, anche mediante eventi performativi molto partecipati.

Bianco/nero (libro d’artista)

Nel 1995 avviene una svolta rivoluzionaria, non solo per te ma per l’arte in generale grazie al tuo contributo. Sei infatti una dei primissimi artisti a rivolgersi ai materiali industriali, alla luce elettroluminescente, fai uso di led e di metacrilati trasparenti. Cosa ti ha indotto a questa scelta che sicuramente all’epoca appariva alquanto bizzarra?

Dopo una mostra fatta a Zurigo con altri artisti di Napoli, dove presentavo un bronzo con fili rossi di pvc e una installazione con lastre sempre di pvc nero, incise a laser e specchi sintetici, mi resi conto che la fusione non rispecchiava più il mio sentire, mi bloccava. La luce elettroluminescente la puoi manipolare, è a bassissimo voltaggio, può essere inserita in acqua, è straordinaria, penetra ovunque, pari al sistema venoso del nostro corpo, unita alla trasparenza del metacrilato rappresenta in maniera simbolica la poetica dell’opera che realizzo. Un esempio è l’opera Medi-Terra-Neo dove il mare nostrum è rappresentato da un grande tubo di metacrilato azzurro colmo di fibre elettroluminescenti aggrovigliate, c’è tutta l’energia del mare: il suo colore, l’estensione, il moto ondoso. Più è complesso il soggetto da rappresentare e più riesco a sintetizzarlo. Come ti ho accennato prima dal 1994 ho cercato le materie trasparenti ma anche specchianti perché lo spazio volevo impregnarlo tutto senza perdere quello che il volume opaco ti sottrae alla vista, per guardare oltre….

È complicato esprimere passionalità con i materiali industriali? O hanno doti nascoste lontane dalla freddezza che viene spontaneo attribuire loro?

Ti rispondo con un pensiero di Ernest H. Gombrich: “Per un artista il nuovo materiale rappresenta una sfida, e una sfida esaltante; egli deve cercare di dominarlo portandolo ad ordine e bellezza, creando un nuovo gioco da giocare, e quanto più arduo è il problema, tanto più forte arriverà ad appassionarsi. Egli deve scoprire tutte le potenzialità della nuova materia e quando le ha scoperte deve mettere anche noi in grado di vederle e addirittura amarle.”

Rimane tuttavia l’attaccamento alla materia antica, non trasformata dall’uomo ma rappresentativa della natura che, volendo, domina l’uomo. Mi riferisco in particolare alla pietra lavica. Cosa rappresenta per la tua arte?

Solo una bella sfida, l’intento è stato quello di alleggerire la pietra del suo peso, mi riferisco all’opera “Ianua” nella quale inserire lastre di metacrilato fluo fra blocchi (400 kg ognuno). È stato arduo, sono riuscita grazie a questo straordinario materiale a far passare la luce naturale tra i blocchi, fra l’altro senza farli poggiare direttamente sulla lastra rossa, non chiedermi come.

Nel 2000 sei invitata a Londra da Sotheby’s per una collezione di trenta oggetti da indossare davvero particolari: sono fatti di luce e metacrilato e spesso argento. Un anno prima avevi tenuto un seminario presso la Robert Gordon University di Aberdeen sulla luce elettroluminescente. Qual è l’effetto sul pubblico accademico e non accademico?

A Londra grande pubblico, tanta curiosità, un collezionista ha comprato tre oggetti. Se a Sotheby’s non avessero raddoppiato i prezzi li avrei venduti tutti!
Ad Aberdeen oltre agli studenti del terzo e quarto anno c’erano tutti i loro docenti, persone molto preparate al nuovo, eppure non conoscevano la fibra elettroluminescente che io adopero. Dopo il seminario mi hanno chiesto di visitare i singoli laboratori sperimentali e di rispondere alle domande degli studenti, quelle sono state giornate intense, con loro è stato bellissimo.

Ad un certo punto sembri tornare alla terra natia, fondando un’associazione dal titolo eloquente: ArteNapolidaMangiare. In una delle città più belle del mondo, quale è Napoli, scegli di comunicare arte valorizzando sapori e tradizioni. Che equilibrio hai trovato tra l’approccio quasi fantascientifico che ha contraddistinto la tua arte e la tradizione pura?

Sentivo l’esigenza di una fase corale (che poi è durata otto anni). Con l’Associazione ho potuto invitare molti artisti a livello nazionale. Abbiamo lavorato principalmente con olio e vino, fluidi adoperati come materie d’arte, un modo nuovo per divulgare la cultura dell’immagine della città, integrando scienze diverse. L’equilibrio si è determinato automaticamente poiché io non ho mai tradito l’arte, qualsiasi manifestazione affrontassi o proponessi.

Polipedi

Nel 2007 dedichi un’opera al grande intellettuale Pier Paolo Pasolini, tra l’altro regista che ha fatto dell’arte il grande pilastro del suo cinema. Perché hai voluto donargli questo tributo?

È scaturito da una committenza pubblica facente parte di un progetto di riqualificazione urbana, in piazza Eratostene, zona Pigneto a Roma. Collego Pier Paolo Pasolini agli anni da me vissuti, nella contestazione giovanile del ‘68. Con l’opera ho inteso sintetizzare l’ideologia e la politica prevalente in quel periodo, e il rapporto con il potere che Pasolini, poeta, scrittore e regista dei più innovativi della nuova generazione, dovette affrontare.

Cosa rappresentano i polipedi che ami spesso rappresentare con le tue sculture luminescenti? Qual è il loro valore semantico?

Essi rimandano alle antiche coppe-braciere dell’accoglienza. Sono nuove creature simboliche, eteree e trasparenti, ma allo stesso tempo solide nel loro radicarsi al suolo attraverso lunghi tondi di appoggio. Accolgono materie vinose come le vinacce o vino profumato quando allestisco le performance. Tra aria e terra attraverso le ombre colorate che illuminano il pavimento i polipedi sono forme plasmate dal fuoco, concave/convesse. Un filo conduttore luminoso, di colore blu-green, è simbolo della memoria che viaggia tra la gente nell’azione performativa.

Lo scorso anno la tua opera “Venustas” è stata tra le tredici selezionate tra quelle dell’Unione Europea iscritte al bando per il Premio COMEL Vanna Migliorin. Puoi raccontarcene l’origine?

Forte è stato il desiderio di concretizzare un pensiero che da tanto tempo mi portavo dentro e devo confessarti che quando ho letto del concorso bandito dalla Co.me.l. “LEGGERO come ALLUMINIO” mi è scattata l’idea di dar forma al mio pensiero che già da qualche anno avevo tracciato su una lastra di pvc rosso. Il materiale richiesto l’alluminio, non era mai rientrato fra le materie da me preferite. Venustas è la bellezza, un concetto astratto, ma certamente etereo, luminoso e leggero. Ecco che le materie perfette per questa opera potevano essere solo il metacrilato trasparente e l’alluminio, per il loro naturale colore, trasparenza, luminosità e peso. Dove certamente solo la nuda realtà delle materie impiegate ha potuto comunicare il concetto di bellezza nella sua essenza più profonda. Aggiungo poi due piccole ali rosse e il volo è per me perfetto.

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2023-08-06T18:27:07+02:00
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